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GIORNO PER GIORNO 14 febbraio

Cronologia di storie della Beat Generation, della Controcultura e altro ancora.

14 febbraio 1969

Sulle pagine dell’East Village Voice viene rilanciata, a firma Alex Gross, la scadenza di un minaccioso ultimatum al Modern Museum che preannuncia ‘il mondo dell’arte sta per attraversare il momento più turbolento che abbia mai conosciuto.’ L’articolo si concentra sul problema della mancata inclusione degli artisti neri nei circuiti istituzionali dell’arte, incalzando il museo con domande specifiche: ‘perché succede che nessun artista famoso sia nero? Perché le gallerie non espongono quasi mai artisti neri? Perché i principali musei di New York e americani non fanno praticamente niente per gli artisti neri?’ Gross avverte che l’eventuale incapacità del museo di affrontare questi interrogativi cocenti con una discussione libera e aperta e con specifiche azioni concrete troverà in risposta azioni di protesta come picchetti, sit-ins e manifestazioni. In realtà quando l’articolo viene pubblicato già da quasi un mese la neo-formata BECC (Black Emergency Cultural Coalition) aveva cominciato azioni di picchetto sui gradini del MET (Metropolitan Museum of Art) in protesta contro l’appena inaugurata mostra Harlem on my mind: The Cultural Capital of Black America 1900-1968.

Voluta dal direttore del MET Thomas Hovig e curata da Allon Shoener (entrambi bianchi), fin dalle fasi della sua pianificazione un anno prima la mostra aveva attirato il malcontento della fiorente comunità di artisti neri di Harlem, che dagli inizi degli anni Sessanta si confrontavano con le sottili pratiche di esclusione praticate dalle istituzioni culturali. I musei non assumevano personale nero nelle posizioni di ricercatore o curatore, né esponevano opere di artisti afroamericani. Il caso delle gallerie non era molto diverso, e l’artista Benny Andrews descriverà la situazione così: ‘Fino agli anni Sessanta il mondo delle gallerie aveva un tot numero di artisti affermati, diciamo dieci. Quegli artisti spesso decidevano chi potessero essere, al massimo due, i nuovi giovani artisti ad entrare, come protégés, che poi venissero coltivati per diventare il prossimo gruppo. E per un normale artista non c’era modo di accedere a meno che non ottenessero quello che letteralmente gli schiavi potevano ottenere: un lasciapassare dal padrone per entrare’. Paradossalmente, cinque anni dopo la marcia di Washington, quattro anni dopo il Civil Rights Act e tre anni dopo il Voting Rights act, il ‘liberale’ mondo dell’arte si dimostrava ancora resistente all’inclusione e alle pressanti richieste di giustizia ed uguaglianza da parte degli artisti neri. Le controversie sollevate dalla mostra Harlem on my mind: The Cultural Capital of Black America 1900-1968 determineranno la tempesta perfetta che si abbatterà sulle istituzioni artistiche costringendole negli anni a confrontarsi con la questione. La mostra fu concepita in forma documentaristica: tredici sale vennero organizzate cronologicamente per decadi e ogni sala accoglieva gigantografie fotografiche, diapositive e filmati corredati dall’accompagnamento acustico di registrazioni audio, col risultato che Harlem veniva rappresentata come oggetto di studio etnografico e non come agente creativo.

Pur proponendosi di celebrare la vitalità della prevalentemente nera comunità di Harlem, la mostra fu infatti realizzata senza accogliere i preziosi input del comitato culturale di Harlem, consultato senza che però i suoi suggerimenti venissero attuati, e senza opere d’arte realizzate dagli artisti neri che quella stessa comunità rappresentavano con la loro arte. Il montante malcontento portò il comitato culturale di Harlem a ritirarsi dal suo ruolo consultivo e il rifiuto del direttore Hovig di togliere o almeno emendare un saggio della studentessa Candice Van Ellison dai toni antisemiti costrinse addirittura il sindaco Lindsay a minacciare di ritirare i fondi comunali destinati al museo. Nei mesi che precedettero l’inaugurazione ci furono diversi tentativi di dialogo con il MET, in forma di lettere o incontri, promossi soprattutto dal gruppo di artisti Spiral, formatosi nel 1963 con l’intento di usare la propria arte come veicolo di uguaglianza razziale. La strategia del dialogo pacifico e della collaborazione tipica del movimento per i diritti civili si scontrava con l’ermetica chiusura della direzione del MET e portò alcuni artisti della comunità nera ad essere insoddisfatti con i concilianti tentativi attuati. Il 9 gennaio 1969 Benny Andrews, Henri Ghent e John Sadler la Black Energy Cultural Coalition (BECC), diventandone il consiglio esecutivo. La nascita della BECC è sancita nello stesso giorno dalla loro prima protesta, in forma di picchetto davanti ai gradini del MET, con i partecipanti ad indossare cartelli che recitavano ‘Harlem on whose mind’ (Harlem nella mente di chi?) e a distribuire volantini nei quali si leggeva: ‘si può facilmente immaginare che un museo d’arte sia interessato al mondo dei pittori e degli scultori di Harlem. Invece ci viene offerta una proiezione audio-visiva simile a quelle installate nelle lobby degli hotels durante i convegni. Se l’arte rappresenta la vera anima di un popolo, allora questo rifiuto dei pittori e degli scultori Neri é la più insidiosa forma di segregazione che si sia mai vista.’

Nei mesi successivi le proteste promosse da BECC, Spiral, dall’Harlem Cultural Council e dal gruppo di artisti Weusi, si indirizzarono anche agli altri due musei principali di New York, il MOMA e il Whitney, attirando l’attenzione mediatica al punto tale che quelle istituzioni non poterono più ignorare la questione di fronte all’opinione pubblica. Le rivendicazioni della comunità nera presero forma di richieste dirette (inclusione di artisti afroamericani nelle mostre, anche monografiche, istituzione di borse per artisti di colore, inclusione di curatori e ricercatori neri nell’organico dei musei etc. etc.) pena il proseguimento ad interim delle azioni di protesta e la mobilitazione di un numero sempre più alto di persone. L’attivismo degli artisti afroamericani dal 1969 in poi rifletteva quell’irreversibile passaggio ad una protesta più marcatamente oppositiva che dal motto ‘Freedom Now’ del movimento per i diritti civili aveva portato al ‘Black power’.


14 febbraio 1967

San Valentino: fight&love

(xilografia di James Lesesne Well 1928)

Al Village Theatre, tra la 6th Street e la Second Avenue di New York City l’appuntamento per il St.Valentine’s Day è quanto di più intrigante una mente possa immaginarsi. Anche una mente già sperimentalmente allargata a più ampie percezioni potrebbe rimanere piacevolmente ispirata dal gruppo di poeti e attivisti che attendono di far innamorare le persone dalle ore 20 in poi. Il programma del Sweethearts Day propone per un ingresso di due dollari in un sol colpo Beat, Controcultura, Black Arts Movement , Black Power e tutto quanto di nuovo e intelligente ormai scorre impetuoso come un fiume non più sotterraneo. Una serata che risente del clima di tensione e lotta degli artisti afroamericani che hanno minacciato azioni di boicottaggio contro i musei che marginalizzano le opere e la cultura della comunità nera.

Sicuramente sbilanciata in senso maschile, la serata vede la presenza ufficialmente di un’unica donna, l’attrice di TV e cinema Denise Nichols, attivista afroamericana per i diritti civili. Forte e preponderante la componente black, con Leroy Jones, poeta, editore e autore del popolarissimo Il popolo del blues, punto di contatto tra letteratura Beat e Black Power come pure un altro ospite della serata il poeta ed editore di Harlem David Henderson, co-fondatore di Society of Umbra con l’omonima rivista e coinvolto nella pubblicazione di uno dei primi – e più ammirati – giornali della controcultura del paese, EVO-East Village Other, tra i fondatori dell’Underground Press Service. E’ in uno dei primi numeri del black magazine Umbra che, accanto a nomi come Alice Walker e Quincy Troupe, appaiono i primi racconti di un altri attesi reader della serata, Tom Dent, poeta e attivista di New Orleans, il poeta panamense Lorenzo Thomas e Ishmael Reed, anche lui tra i fondatori di EVO e che diventerà famoso per Mumbo Jumbo, satirico romanzo gotic-woodoo (o black fantasy?). Con loro per il Black Arts Movement anche Len Chandler eclettico performer,, cantautore di protesta e famosissimo per uno dei brani radiofonici più trasmessi, Beans in my ears, brano che originariamente accusava gli adulti di avere noccioline nelle orecchie per cui la voce dei bambini non veniva ascoltata, e che cantato in piazza e nella versione di Pete Seeger diventavano le orecchie del Presidente L. B. Johnson che non ascoltava gli americani che si opponevano alla guerra. Con loro altri big della black culture tra cui Steve Cannon, scrittore animatore dell’organizzazione di promozione della cultura afroamericana Gathering of the Tribes la cui prosa sarà definita anticipatrice del rap, come la poesia del musicista (giornalista,scrittore e scultore ) Leroy Bibbs in triplice veste per S. Valentino.

La parte Beat e la Controcultura è onorevolmente rappresentata da Allen Ginsberg, Peter Orlowski, Allan Katzmane da un autentico mito della cultura underground, il poeta Ray Bremser, dietro le sbarre durante il servizio militare, poi in riformatorio e per sei anni in carcere per rapina, e in seguito, per non aver rispettato il domicilio coatto, in perenne fuga, insieme alla moglie autrice di un romanzo epistolare con la ricostruzione delle loro vicende personali. A loro si aggiungerà anche il poeta del Black Mountain College Joel Oppenheimer, conosciutissimo redattore liberal del Village Voice.


14 febbraio 1967

Abbie Hoffman, tra le persone più attive nel movimento della Controcultura nel suo libro Ho deriso il potere racconta il suo ludico provocatorio San Valentino del 1967, giocato con la collaborazione di Jimi Hendrix, iniziato con un invio postale di migliaia di canne di marijuana ad altrettanti sconosciuti scelti casualmente.

Abbie Hoffman così racconta nel suo libro “Ho deriso il potere”: Il giorno di san Valentino ha un significato speciale, e per l’occasione ho escogitato un regalino tra innamorati, gentile omaggio della controcultura. Tremila persone scelte a caso sull’elenco del telefono ricevettero quell’anno una canna di maria rollata ad arte con un biglietto che diceva: “Buon san Valentino. Questa sigaretta non contiene sostanze dannose e cancerogene. È fatta al 100% con marijuana purissima”. C’erano anche le istruzioni su come fumarla, perché i destinatari potessero mandare a quel paese tutte le balle che giravano e decidere con la propria testa. Un postscriptum avvertiva: “Oh, a proposito, il possesso dell’oggetto che hai in mano in questo momento può costarti cinque anni di galera, indipendentemente da come o da chi l’hai avuto”.

La stampa reagì come se fosse calata sulla Grande Mela una piaga d’Egitto, e da Washington, almeno secondo i giornali, furono inviate squadre speciali di agenti dell’antinarcotici appositamente per stanare i delinquenti. Il giornalista televisivo Bill Jorgensen, allora a Channel Five, recitò per l’occasione la parte del perfetto signor nessuno. Ripresa a mezzo busto: “Buona sera, sono Bill Jorgensen e questo è il notiziario della sera. Questo (pausa melodrammatica) è uno spinello. È fatto con una sostanza illegale, la marijuana. Migliaia di ignari cittadini di New York ne hanno ricevuto uno oggi assieme al seguente messaggio di san Valentino” annunciò con faccia impenetrabile. E dopo averlo letto: “La polizia ha approntato una linea speciale per le chiamate di protesta” (numero che scorreva in basso nello schermo). “Adesso lo chiamiamo.” Mentre New York aspettava con il fiato sospeso fu proposto un riempitivo di venti minuti di notizie e pubblicità. Poi, verso la fine del telegiornale, il giornalista in studio presentò un paio di tizi in impermeabile, due perfetti cloni dei detective dei telefilm.

Giornalista: Lei è della polizia? Poliziotto: Esatto. Giornalista: Ho ricevuto questa nella posta. Poliziotto: Circa a che ora? Giornalista: Era nella posta del mattino. Poliziotto: Nome e indirizzo? Giornalista: Bill Jorgensen. Poliziotto: Ha un documento? Giornalista (perplesso): Mah, sono Bill Jorgensen. Non lo vedete il cartello? Questo è il telegiornale presentato da Bill Jorgensen. Poliziotto: Dobbiamo lo stesso vedere un documento. Giornalista: Ma essere in possesso di questa canna potrebbe costarmi sul serio cinque anni di prigione? È vero? Poliziotto: Non è competenza del nostro dipartimento. Dovrebbe chiederlo al procuratore distrettuale. Giornalista (ancor più perplesso, guardando in camera): Bene, il notiziario di stasera è terminato.

È successo sul serio su una rete di New York. Un’emittente radio del New Jersey riferì addirittura che Bill Jorgensen era stato arrestato…

In un passo successivo del libro, Abbie Hoffman svela che il ludico surreale gioco aveva avuto il sostegno economico di Jimi Hendrix.


14 febbraio 1967

“Shit for peace” nel giorno di San Valentino un invito dalla Scozia a inondare di cacca la residenza di Lindon B. Johnson,Presidente degli Stati Uniti.

All’incontro inaugurale di una nuova sede di un’improbabile International Terrorism Secretary nel nord della Scozia viene lanciata una serissima campagna contro il terrorismo seminato dall’Amministrazione americana in Vietnam denominata “Merda per la pace”. Con l’obiettivo di stimolare una risposta viscerale che partendo dal Regno Unito possa coinvolgere tutto il mondo , come si legge in una loro dichiarazione, ‘si vuole trasmettere al Presidente degli Stati Uniti, un certo Lyndon Baines Johnson, il disgusto di tutte le persone dai buoni pensieri per le sue bestiali attività nel piccolo paese devastato dalla guerra del Vietnam Chiediamo alla gente comune di tutto il mondo di raccogliere, preferibilmente in sacchetti di polietilene, quantità di escrementi umani (o altro) e spedirli a Johnson, programmando che arrivino il 4 luglio (Giorno dell’Indipendenza americana). Ulteriori bollettini verranno emessi con il progredire della campagna.’

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