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GIORNO PER GIORNO 7 maggio - Rock’n Rothko

7 maggio 1966

Rock’n Rothko

Esce il singolo Paint it Black dei Rolling Stones, brano psichedelico che segna una svolta nella carriera della band. Il titolo della canzone fu ispirato da una visita ad una mostra che esponeva i quadri ‘neri’ di Mark Rothko, la cui oscura drammaticità è affine al tono cupo e depresso del testo.



Tra il 1965 e il 1966 i Rolling Stones avevano raggiunto un altissimo livello di popolarità, grazie soprattutto ai singoli (I Can’t Get No) Satisfaction, Get Off Of My Cloud e 19th Nervous Breakdown, interamente scritti da loro. Con la conferma del successo, il gruppo si poteva permettere di alzare il tiro delle ambizioni creative, alimentate dall’originale genio compositivo di Brian Jones e dall’affiatamento di Mick Jagger e Keith Richards. Per la prima volta i Rolling Stones lavorano ad un album fatto unicamente di canzoni composte da loro. Impegnati in un tour internazionale, sono ormai anche immersi nella scena mondana e culturale, e sono diventati habituées non solo dei parties e della vita notturna inglese e americana, ma anche di eventi di rilevanza artistica. Nel corso di una visita al Guggenheim Museum di New York si ritrovano davanti ad una serie di lavori recentissimi di Mark Rothko, il pittore di origini lettoni che aveva raggiunto la totale astrazione cromatica spinto dall’anelito ad un’arte sublime ed assoluta, e che dopo aver utilizzato gamme cromatiche accese e luminose era approdato ad una fase creativa inquieta e disperata che si rifletteva nelle sue tele composte da campi cromatici tendenti al nero.

Il rock dei Rolling Stones, più grezzo e aggressivo di quello dei Beatles, incapsulava le inquietudini della generazione giovane, le spinte ribellistiche, l’amore libero da convenzioni e l’uso delle droghe. Ma con Paint it Black il senso di inquietudine si fa più cupo e drammatico, con l’evidente

ritratto di un giovane profondamente depresso ormai privato di qualsiasi capacità di vedere il mondo a colori e di godere delle piccole gioie quotidiane. La canzone fa riferimento ad un corteo funebre di macchine nere che accompagna la bara dell’amata del narratore. Il seguito della canzone però trascende il singolo lutto per esprimere uno stato di pena esistenziale totale. Mick Jagger, autore insieme a Keith Richards del testo, successivamente rimarrà vago sul tema della canzone, liquidandola così: “Era un’epoca in cui giravano un sacco di acidi. Ci sono i sitar...É l’inizio della psichedelia infelice”. Si deve a Brian Jones, che condivideva con George Harrison l’interesse verso le sonorità orientali, l’aggiunta dell’ipnotizzante melodia col sitar, assemblata durante un’improvvisazione in studio con Bill Wyman e Charlie Watts. Il loro contributo compositivo conferisce al perturbante testo di Jagger e Richard un perfetto contrappunto sonoro.



Così come la pittura di Rothko era approdata al nero nel tentativo di tradurre su tela “le emozioni umane fondamentali, tragedia, estasi e destino”, esprimendo uno stato spirituale che va oltre le contingenze materiali della vita, così lo stato di depressione totale e arrabbiata di Paint it Black

riflette il lato meno gioioso e più oscuro, ai limiti del distruttivo, della gioventù ribelle degli anni Sessanta. Il suo testo ‘malato’ aveva forte presa emotiva sui giovani soldati arruolati in Vietnam che dichiararono apertamente di ritrovarsi nel misto di rabbia e disperazione della canzone, spesso associata con l’opposizione a quella guerra che in molti rifiutavano a gran voce. Disperati al fronte di una guerra che non sapevano perché stavano combattendo, o tornati a casa con disturbi post-traumatici irreversibili e marginalizzati dalla società, i soldati del Vietnam potevano essere i perfetti interpreti per le parole maybe then/I’ll fade away/ and not have to face the facts/ It’s not easy facing up/ When your whole world is black (forse allora/scomparirò/ e non dovrò affrontare i fatti/Non è facile stare a testa alta/Quando il tuo intero mondo è nero). Non a caso Stanley Kubrick sceglie Paint it Black come colonna sonora dell’ultima scena di Full Metal Jacket.

Michelangelo Antonioni, che nel 1964 con Deserto Rosso aveva dato una svolta formale fondata sul colore alla sua regia, in una lettera aveva scritto a Mark Rothko: “i suoi quadri sono come i miei film: parlano del nulla con esattezza”. E quando, nella fase finale della sua carriera artistica - solo, alcolizzato e depresso - Mark Rothko era arrivato a dipingere esclusivamente con colori scuri, annientato dal male esistenziale aveva spiegato: “Il nero mangerà il rosso, la morte mangerà la passione”. I suoi quadri rappresentano quell’attimo prima del disastro. Proprio come nella canzone dei Rolling Stones, il disagio di Rothko si traduce in oscurità assoluta facendo eco al testo di Jagger e Richards I look inside myself/And see my heart is black/I see my red door/I must have it painted black (Mi guardo dentro/ e vedo che il mio cuore è nero/ Vedo la mia porta rossa/ devo farla dipingere di nero).


Rolling Stones, Paint it Black


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