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GIORNO PER GIORNO 7 luglio - .Truffaut, W. Burroughs e i ragazzi selvaggi

7 luglio 1969

 

François Truffaut inizia a girare il film Il Ragazzo selvaggio



“Con le parole, guerra alle parole” (William Burrougs)


François Truffaut inizia a girare il film Il Ragazzo selvaggio ponendo a sé stesso, allo spettatore, al cinema stesso, il problema del linguaggio. Sono le parola e la lingua, il linguaggio, la base dell’intendersi, del collaborare, dell’interesse di una persona per l’altra? Le parole sono la base della cultura che emancipa? La conoscenza è la base di questa emancipazione o la sua mistificazione?


Truffaut ragiona per esempi, per rendere chiaro il suo linguaggio. Usa figure, archetipi, citazioni nascoste per dimostrare una sua tesi a proposito, sapendo comunque di seminare più dubbi che certezze. Sotto la superficie, sotto il linguaggio, al di là delle intenzioni.


Si parte dall’archetipo: il ragazzo selvaggio, quell’essere umano allevato e cresciuto da e tra animali della foresta, della savana, della giungla. Un essere che a partire dagli studi di Jean-Jacques Rousseau e dello svedese Linneo, verso la metà del XVIII secolo avevano iniziato a porre il quesito di quanto sia culturale, derivato cioè dall’ambiente e dall’educazione, e quanto dall’eredità genetica il comportamento di ciascuno di noi. Il ragazzo cresciuto nella foresta, a distanza dalla civiltà era il buon selvaggio non corrotto che vive in armonia con il resto della natura o, in un’altra lettura, se ne fa dominatore in quanto al vertice della piramide evolutiva? Il pensiero filosofico illuminista poteva abbracciare entrambe le opzioni e la narrativa dei secoli successivi, con Edgar Rice Burroughs e il suo Tarzan delle scimmie e Rudyard Kipling col suo Libro della giungla, intrisi di esotismo colonialista, reinterpretano il ragazzo selvaggio, come l’essere da riportare alla civilizzazione (dell’Impero).


Rousseau e Linneo avevano documentato una decina di casi dei secoli precedenti o loro contemporanei di bambini, ragazzi umani ritrovati, catturati in stato “ferale” di vita come bestie selvatiche. Truffaut si serve di uno dei casi più conosciuti e studiati , quello di un approssimativamente dodicenne catturato nel 1798 da un gruppo di cacciatori dopo numerosi avvistamenti e fughe nella foresta francese di Aveyron. Sono gli anni del dopo rivoluzione, della restaurazione “termidoriana”, della borghesia trionfante, dei proprietari delle campagne che con un colpo di stato hanno soppresso le riforme popolari dei primi anni della Rivoluzione, ma sono ancora gli anni in cui si ha una fiducia infinita sulla scienza, l’educazione, la cultura. Così il ragazzo deve essere studiato e rieducato, riportato nel consesso civile. Portato a Parigi, il ragazzo, esaminato dal famoso ed esperto psicologo Philippe Pinel fu giudicato un ritardato mentale: non era sordo, ma non badava a quanto gli si dicesse, non era interessato a nulla e, ovviamente non parlava. Di diverso parere il ventisettenne medico Jean Marc Gaspard Itard che, con la collaborazione e l’affetto di Madame Guerin, la governante dal gran cuore, si mise in testa di dimostrarne l’intelligenza che aspettava le condizioni più propizie per mostrarsi. Il giovane medico ha rispetto per il ragazzo e confida che possa trovare adeguate modalità di espressione attraverso sollecitazioni diverse che lo aiutino a mettere insieme parole e sensazioni, oggetti e desideri, bisogni ed espressioni.


François Truffaut fa lo stesso e diventa Itard nel film e fuori. Diventa regista e interprete e, nella realtà insegnante di linguaggio (cinematografico). In precedenza in un film dal sapore autobiografico come I 400 colpi, era stato il regista di un altro sé stesso, Jean-Pierre Léaud che interpretava il ragazzo Antoine Doinel. E il film, Il ragazzo selvaggio lo dedica proprio a lui e fa un’altra cosa. Prende come interprete principale un ragazzo gitano, Jean-Pierre Cargol, a cui, prima ancora di insegnare a recitare, cioè a essere più naturale e spontaneo possibile, insegna il linguaggio cinematografico, invitandolo a imparare inquadrature, luce, effetti. “A film terminato, ci si è accorti che il cinema l’aveva fatto evolvere; secondo me la differenza tra Jean-Pierre Cargol prima e dopo la lavorazione del film, è stupefacente. La troupe gli ha offerto una piccola camera 8 mm. per iniziarlo al cinema ed egli aveva detto: ‘Sarò il primo regista gitano’”.


Jean Marc Gaspard Itard, il medico che aveva provato a scuotere dall’apatia il ragazzo trovato nella foresta non era riuscito nel suo intento. Aveva provato con giocattoli e suoni, con cibi diversi ma erano tutte cose che non avevano alcun interesse per lui. E neppure le parole avevano per lui molto senso. Aveva imparato a voltarsi quando sentiva il nome che gli avevano dato, Victor, ma solo perché conteneva il suono Oh al quale dava una certa importanza. Aveva imparato a dire Lait, latte ma non legava il suono della parola al concetto. Dopo alcuni anni il medico abbandonò l’idea di educarlo e lo portò in un istituto per orfani e ragazzi con ritardi e problemi mentali. Al di là delle buone intenzioni, quanto squilibrato era stato il rapporto tra i due? Non erano ancora tempi per cui il medico si potesse mettere il problema di come imparare dal ragazzo? “Vedendo che il prosieguo dei miei sforzi e il passare del tempo non portavano a nessun cambiamento, mi sono rassegnato e l’ho abbandonato al suo incurabile silenzio.”


Victor di Aveyron, come da allora venne chiamato, probabilmente era stato volutamente abbandonato nella foresta, forse dalla stessa famiglia che lo giudicava ritardato e quindi poco produttivo, come spesso accadeva, o comunque qualcuno aveva voluto sbarazzarsi di lui, ferendolo alla gola con un coltello di cui portava la profonda cicatrice. Aveva dunque conosciuto violenza e si era trovato improvvisamente a doversi arrangiare in un ambiente sconosciuto e poco ospitale. Come le altre decine di bambini e ragazzi (comprese anche alcune ragazze in epoche diverse), Victor se l’era cavata, era sopravvissuto. Probabilmente come altre e altri aveva imparato a convivere con animali predatori, a scambiare con loro messaggi e favori, a chiedere e ottenere protezione o tolleranza. Un mucchio di cose da imparare ma che a nessuno, neanche al buon medico Itard erano sembrate una forma di cultura, di adattamento a un’organizzazione diversa della vita. Per lui come per noi l’importante è la comunicazione attraverso un linguaggio, basta che sia uno codificato da noi stessi.


I colonizzatori, i viaggiatori, i commercianti che attraversavano i continenti, quelli che esploravano l’Africa e le Americhe, tornavano sempre con n’identico responso. Gli abitanti di quei luoghi, gli indigeni erano persone ingenue che non meritavano i tesori che la loro terra aveva inopinatamente riservato loro. Per lo più non comprendevano l’accumulazione dei beni, la ricchezza. Si accontentavano di poco ed erano sconsideratamente felici di non cercare di avere di più. I ragazzi selvaggi, anche loro erano così ma in più non utilizzavano il linguaggio umano, nessun linguaggio. Per cui come tutti i selvaggi o li si rieduca, li si trasforma o li si esibisce come fenomeni in raccapriccianti spettacoli da fiera o da circo.


Lo scrittore William Burroughs, aveva del linguaggio (e della società) un’idea totalmente opposta: le parole sono una gabbia, una convenzione non naturale per idee e sentimenti. E aveva avanzato una proposta perché nelle non troppo amate aule universitarie si introducesse un semplificato linguaggio basato sulle forme, come i geroglifici “Lo scopo è il decondizionamento delle reazioni verbali automatiche tramite l’insegnamento a pensare per immagini. Lo studente impara a guardare prima di parlare. Quando si sarà appreso a usare le parole invece di essere usati da esse, diventerà facile dominare ogni altra materia”.


Burroughs, pur frequentando assieme ai suoi amici Kerouac e soprattutto Ginsberg, gli ambienti della controcultura, dell’opposizione alla guerra nel Vietnam, dei movimenti alternativi, non amava per nulla le chiusure ideologiche, le formule dogmatiche, le sicurezze rivoluzionarie e tanto meno i linguaggi che le accompagnavano. Parteggiava per situazioni più istintive, fluide, imprevedibili, eccessive, naturali.


Il suo libro i ragazzi selvaggi, ambientato nel 1988 ma scritto negli anni più forti dei movimenti alternativi, a fine anni Sessanta e pubblicato nel 1971 è una sorta di guida per sottrarsi al controllo dispotico della società e dal suo linguaggio.


“La difficile primavera del 1988. Con il pretesto del controllo delle droghe stati polizieschi oppressivi sono stati messi su in tutto il mondo occidentale. La programmazione precisa del pensiero emozione e impressioni sensoriali apparenti secondo la tecnologia descritta nel bollettino 2332 mette gli stati polizieschi in grado di mantenere una facciata democratica dietro la quale denunciano a gran voce come criminali, pervertiti e drogati tutti quelli che si oppongono alla macchina di controllo. Eserciti underground operano nelle grandi città disturbando la polizia con informazioni false attraverso telefonate e lettere anonime. […] Malgrado i diversi scopi e formazioni dei suoi membri costituenti l'underground è d'accordo sugli obiettivi base. Intendiamo marciare contro la macchina della polizia dappertutto. Intendiamo distruggere la macchina della polizia e tutti i suoi archivi. Intendiamo distruggere tutti i sistemi verbali dogmatici. La cellula familiare e le sue cancerose espansioni in tribù, paesi, nazioni noi la sradicheremo alle sue radici vegetali. Non vogliamo più sentire nessuna storia di famiglie, storia di madre, storia di padre, storia di poliziotto, storia di prete, storia di paese o storia di partito. Per dirla in parole povere noi abbiamo sentite abbastanza stronzate.“


Sono ragazzi che affermano: “ Il nostro obiettivo è il caos totale”, “sciamani che cavalcano il vento”, “ragazzi che invocano le locuste e le zecche, ragazzi del deserto timidi come piccole volpi, ragazzi onirici che si vedono i sogni a vicenda”.


Il ragazzo selvaggio di Truffaut è un problema di linguaggio, di narrazione, una cosa che c’entra con l’idea gramsciana di egemonia. Truffaut regista di sé stesso e maestro del ragazzo selvaggio e di tecnica cinematografica ritorna al linguaggio essenziale del bianco e nero del cinema muto. Utilizza la lezione del cinema muto e affida la direzione della fotografia a Nèstor Almendros, inaugurando con lui una proficua collaborazione e che descriverà con queste parole: “Almendros è consapevole di esercitare un'arte pur praticando un mestiere. Ama il cinema religiosamente e ci fa condividere la sua fede”.


Il film come racconta Truffaut ‘È un omaggio alla fotografia dei film muti. […] Il loro stile, senza fronzoli, aveva quella precisione assonometrica che oggi non esiste più.” Insoddisfatti delle possibilità che la tecnica offre ma che appiattiscono gli effetti, il regista e il direttore della fotografia ricorrono a un apparecchio dell’epoca del muto, un miracoloso ritrovamento di un epoca che aveva inventato e dato respiro al linguaggio cinematografico, un reperto da archeologia del cinema che utilizzato per le riprese, raddoppia il significato de Il ragazzo selvaggio come afferma in un suo studio critico Anne Gillain: il film sul segreto delle origini dell’uomo, celebra anche quelle del cinema.


A distanza di anni riflettendo sul film e sulla sua produzione cinematografica François Truffaut afferma: “Oggi mi rendo conto che L’enfant sauvage si imparenta sia con Les quatre-cents coups che con Fahrenheit 451. Nel primo ho mostrato un ragazzo che mancava di affetto, cresciuto senza tenerezza; nel secondo un uomo cui vengono negati i libri, cioè la cultura. Quello che manca a Victor dell’Aveyron è ancora più radicale: si tratta del linguaggio. Questi tre film sono dunque costruiti sopra una frustrazione fondamentale. Anche negli altri film mi sono adattato a descrivere personaggi che sono fuori dalla società: non sono loro che rifiutano la società, ma è la società che li rifiuta.”


Il film non da soluzioni, rimane in sospeso, lascia dubbi, non ci racconta cosa accadrà a Victor che nelle sequenze finali vediamo sorridere con gli occhi mentre si allontana sotto la pioggia verso la foresta, ululando…


Il giovane medico Jean Marc Gaspard Itard dopo i suoi tentativi educativi nei confronti del ragazzo selvaggio aveva detto“Ho sperato invano. È stato tutto inutile. Sono svanite così le brillanti attese sulle quali mi ero basato” . Eppure un chiaro segnale dell’interesse del ragazzo un giorno l’aveva avuto, come annota nel suo diario: “L’ho condotto non molto tempo fa nella valle di Montmorency… Era uno spettacolo dei più curiosi e direi dei più commoventi vedere la gioia dipingersi nei suoi occhi alla vista dei pendii e dei boschi di quella ridente vallata: sembrava che i finestrini della carrozza non bastassero all’avidità dei suoi sguardi… Passò due giorni in questa casa di campagna; tale fu l’influenza degli agenti esterni di quei boschi e di quelle colline, che parve più che mai impaziente e selvaggio, tanto che pur circondato dalle cortesie più assidue e dalle premure più allettanti, non sembrava avere altro desiderio che di darsi alla fuga


Pentito di aver iniziato quell’esperienza che non era riuscito a concludersi con lo schema che si era prefissato, arrivò a condannare la “sterile inumana curiosità degli uomini che avevano strappato Victor dal suo posto”. Qualcosa aveva imparato.

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