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GIORNO PER GIORNO 7 giugno - Io il perdono non l’avevo chiesto

7 giugno 1973

 

«Io il perdono non l’avevo chiesto: non mi sento colpevole. Quindi non sono pentita. A stabilire il mio pentimento è stata la legge». Così Gigliola Pierobon commenta la sentenza che la salva dal carcere. Dopo un clamoroso processo e una lunga camera di consiglio, i giudici del tribunale di Padova decidono per il perdono giudiziale della ragazza accusata di aborto.


Era il 7 giugno 1973 e in Italia le donne erano ancora costrette a ricorrere ai ferri da calza per interrompere una gravidanza indesiderata. Tempi in cui le infezioni o le perforazioni dell’utero avevano spesso conseguenze drammatiche, tempi di tavoli da cucina, dolori atroci e rischi penali. Tempi sempre in agguato e pronti a tornare drammaticamente attuali: i consultori italiani sono infestati dai comitati pro-vita, gli ospedali da medici obiettori.


Non va meglio nel mondo: lo scorso 19 maggio il Texas ha vietato l’aborto dopo le 6 settimane di gestazione, anche in caso di stupro e incesto. Così Paxton Smith, durante la cerimonia della consegna del diploma alla Lake Highlands High School di Dallas, è salita sul podio e ha letto davanti a tutti i diplomandi un discorso che ha fatto il giro del mondo. «…Sei settimane, tutte le donne sanno che la gran parte si accorge dopo quel termine di essere incinta, così prima di avere la possibilità di decidere se sono emotivamente, fisicamente e finanziariamente pronte per portare a termine la gravidanza, prima di poter decidere se sono pronte a prendersi cura di un altro essere umano, questa decisione sarà presa da un estraneo. Una decisione che condizionerà il resto della loro vita sarà presa da un estraneo. Io ho sogni, speranze e ambizioni di tutte le ragazze che si diplomano oggi. Abbiamo speso tutta la vita e lavorato duro per il nostro futuro e senza il nostro consenso, senza il nostro controllo quel futuro ci è stato strappato via. Sono terrorizzata perché se il mio contraccettivo non dovesse funzionare o se venissi stuprata tutte le mei ambizioni, i miei sogni, le mie speranze e i miei sforzi non conteranno più nulla. Spero che voi sentiate quanto tutto questo è angosciante, quanto sia disumano che l’autonomia sul vostro corpo vi sia tolta…».


A 17 anni anche Gigliola Pierobon non si era sentita pronta per portare a termine quella gravidanza inaspettata, soprattutto dopo l’abbandono dell’uomo adulto con cui si era fidanzata. Così aveva fatto ricorso a una mammana per l’aborto clandestino che – stando al codice Rocco ancora in vigore – le faceva rischiare da 2 a 5 anni di prigione per un reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe” che prevedeva un attenuante solo “se il fatto è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto”. Ma soprattutto le faceva rischiare la vita perché le mammane operavano con dei ferri rudimentali senza disinfettanti né antibiotici. Alla cieca. E anche per Gigliola, oltre ai dolori atroci, arrivarono le complicazioni che dovette affrontare non senza ulteriori implicazioni. Dopo quell’esperienza Pierobon si sposa, ha una figlia e si separa. Va a lavorare in fabbrica, entra in contatto con Lotta Femminista e si accorge che la sua storia, non è unica come aveva immaginato. La sua storia è la storia di tante, la storia di tutte. Così quando, a distanza di anni dai fatti, il tribunale la incrimina risalendo a lei dai contatti della mammana, fa una scelta coraggiosa e inedita: si dichiara colpevole. In un misto di ipocrisia e paternalismo, i processi per aborto finivano quasi sempre in nulla per mancanza di prove. Pierobon e i suoi legali decidono di trasformare il procedimento in un processo alle leggi in vigore, in un processo per l’autodeterminazione delle donne.


Alla confessione segue una perizia ginecologia, un esame sicuramente inutile, perché eseguito a distanza di oltre cinque anni, evidentemente antiscientifico, perché eseguito dopo una gravidanza, ma certamente umiliante. Pretestuosi e denigratori anche gli approfondimenti sui dettagli dell’aborto, sulla separazione e sulla vita sentimentale dell’imputata.


I legali della donna - l’avvocato Vincenzo Todesco e l’avvocata Bianca Guidetti Serra, nota partigiana e militante femminista - preparano una difesa innovativa: presentano studi scientifici, sociologici e statistici, ma i giudici rifiutano tutto e fanno naufragare il tentativo di trasformare le udienze in un processo per la legalizzazione dell’aborto. Ma se è vero che i magistrati possono bloccare gli atti ritenuti non pertinenti, è anche vero che non possono fermare la piazza che si scatena in un clima di tensione crescente. Tanti i cortei di protesta che sfilarono non solo a Padova, ma in tutte le città italiane. Molti gli scontri con i gruppi di estrema destra.


Migliaia le donne in piazza, alcune delle quali fanno addirittura irruzione in aula per autodenunciarsi. Il dibattito continuava a inasprirsi quando, in quel giugno del 1973, la corte finalmente arriva a un verdetto: colpevole e condanna a un anno di reclusione, ma a Pierobon i magistrati avevano concesso il perdono perché negli anni si era ravveduta, si era sposata e aveva avuto una figlia. Un paradosso, come non mancarono di sottolineare anche alcuni giornali dell’epoca «Se condannano, lo fanno in base a un oggetto giuridico (la “difesa della stirpe”) che non esiste più; se assolvono, cancellano il reato già tanto svalutato. È una contraddizione che rispecchia la contraddittoria legislazione italiana, la società italiana oscillante e lacerata fra tradizionalismo e innovazione», aveva evidenziato la giornalista Lietta Tornabuoni sulla Stampa.


Per un processo che se da un lato non riuscì a portare il parlamento al dibattito – come era successo in Francia dopo il caso Bobigny – era riuscito a spazzare via l’ipocrisia del silenzio su un tema che le donne conoscevano bene e di cui nessuno poteva e voleva parlare. Un processo che mise in moto il dibattito che, anni dopo, portò al referendum. Una conquista spesso aggirata. Oggi in Lombardia quasi il 70 per cento dei ginecologi è obiettore di coscienza, percentuale che di fatto nega il diritto alla scelta delle donne. Non va molto meglio nelle altre regioni italiane dove i comitati pro-vita si fanno largo nei consultori, dove si organizzano funerali per i feti o, all’insaputa delle donne, questi vengono seppelliti in cimiteri dove l’unico nome che compare su lapidi o croci è quello delle madri. Si è sempre a rischio retromarcia. Un rischio concreto, del Texas si è già detto. Ma anche in Europa i segnali sono pessimi: da gennaio le donne polacche sono in lotta contro la legge che vieta l’aborto. Migliaia le manifestanti in piazza per gli Strajk Kobiet – gli scioperi delle donne – nell’indifferenza colpevole dell’Unione europea e degli altri Paesi.

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