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GIORNO PER GIORNO 4 aprile

4 aprile 1968

 

La poesia della rivolta dopo l’assassinio di Martin Luther King



Il dipinto mostra due figure, una che regge una scultura lignea figurativa, le mani premute contro il vetro (rappresentato letteralmente dalla parola "vetro") ed è un’opera di Jeff Donaldson, artista e uno dei fondatori di AfriCOBRA (African Commune of Bad Relevant Artists), un collettivo di artisti formato nel 1968 con l'impegno a " l'esplorazione collettiva, lo sviluppo e la perpetuazione di un approccio alla creazione di immagini che rifletta e proietti gli umori, gli atteggiamenti e la sensibilità degli afroamericani indipendentemente dalle restrizioni tecniche ed estetiche delle modalità eurocentriche". L’immagine compare nella seconda pagina del poema in tre parti Riot della poetessa afroamericana Gwendolyn Brooks scritto durante la rivolta di Chicago dopo l’assassinio di Martin Luther King, il 4 aprile del 1968.


Gwendolyn Brooks ha poco meno di 51 anni ed è una poetessa afroamericana affermata, quella sera del 4 aprile del 1968 quando, alla notizia dell’assassinio del dottor Martin Luther King, l’America si era fermata. Sgomento, rabbia, paura. Nel giro di poche ore dai ghetti neri partono le rivolte, città per città: 120 rivolte che si protrarranno per più di una settimana. Gwendolyn Brooks sta a Chicago, la città con gli scontri più duri e col maggior numero di vittime, 11, tutti afroamericani. Lei, famiglia povera, orgogliosa del nonno schiavo fuggitivo che si era unito alle truppe del Nord durante la guerra di secessione, grazie a una famiglia molto attenta aveva avuto la fortuna di conoscere e assistere ai reading dei poeti della Harlem Renaissance. Alternando lo studio e la poesia era riuscita a pubblicare prima alcuni componimenti su riviste e a 28 anni la sua prima raccolta con la prestigiosa casa editrice Harper & Row. E nel 1950 riceve il premio Pulitzer per la poesia, il primo vinto da un'afroamericana. L’attenzione per la comunità nera, per i più poveri della sua città, Chicago la portano a connotare sempre di più il suo senso di appartenenza e il suo impegno in favore delle lotte per i diritti civili, riuscendo a collegare la generazione poetica, ancora accademica, da cui aveva avuto impulso, con quella dei giovani ribelli degli anni ’60.


Chicago brucia. E bruciano anche, Washington, Detroit, Baltimora e centinaia di altre città. Haki Madhubuti, direttore della rivista Black Expressions chiede alla poetessa di scrivere qualcosa.


Il poema Riot di Gwendolyn Brooks ha un’impaginazione eloquente quanto i versi. La prima pagina, su sfondo nero riporta in bianco una frase di ‘Buone nuove! Dio è amore’ da Sunday After the War dello scrittore Henry Miller: “Sarebbe una cosa tremenda per Chicago, se questa nera fonte di vita dovesse erompere all’improvviso. Il mio amico mi assicura che non c'è pericolo. Io Non ne sono così sicuro. Forse ha ragione. Forse il negro sarà sempre nostro amico, qualunque cosa gli facciamo".


Segue l’opera di Donaldson. L’oggetto impugnato dall’afroamericano in primo piano, servirà per spaccare il vetro? Nel mentre in città le vetrine cadono, i negozi sono saccheggiati, i locali vanno a fuoco.


Inizia il poema, la prima parte più lunga, visionaria, scrittura per collage, immagini in sequenza: le rivolte per Martin Luther King e poi il racconto della storia di un "John Cabot", simbolo della supremazia bianca, padronale e imperialista "tutto bianco fluorescente sotto i suoi capelli dorati". Figura discendente in linea diretta dai Padri Fondatori, è incalzato dalla rivolta, son venuti ad ucciderlo. Si dimentica quasi di tutte le trappole del suo candore "nutrito" quando vede "'negri'... che scendono per la strada... in ranghi rudi". Disgustato dalla loro povertà e dalla loro sudorazione, dalla loro oscurità e dalla loro rumorosità, dalla loro insostenibilità e dalla loro

indiscrezione, chiede aiuto "a qualsiasi angelo a portata di mano nel cielo". Grida: "Non lasciare che mi tocchi! L'oscurità! Signore!". Ma poi l'oscurità lo tocca, e rimane sospeso"nel fumo e nel fuoco", stravolgendo le ultime parole di un Gesù: "Signore! Perdona questi negri che non sanno quello che fanno".


Intanto le città bruciano e ancora continuano a bruciare, perché la rabbia cova per ogni volta che un poliziotto fermando un nero grida “Spalle al muro, figlio di puttana!”, come in una poesia del più famoso poeta militante afroamericano, Amiri Baraka:


“non puoi rubare niente a un uomo bianco, lui l'ha già rubato ti deve tutto quello che vuoi, anche la sua vita. Tutti i negozi si apriranno se pronuncerai le parole magiche. Le parole magiche sono: Up against the wall mother fucker this is a stick up! Oppure rompi le vetrate di notte (queste sono azioni magiche) rompi le vetrate di giorno, in qualsiasi momento, insieme, rompiamo le vetrate trascinando la merda da lì dentro. Niente soldi. Non c'è tempo per pagare. Prendi quello che vuoi”.


Il 4 aprile 1967, un anno esatto prima di essere assassinato Martin Luther King aveva fatto il discorso che lo riavvicinava alle lotte delle comunità nere dei ghetti delle città del Nord: come le Pantere Nere e prima Malcolm X erano passati dal nazionalismo nero a una visione internazionalista in collegamento con le lotte di liberazione in Africa e Asia, individuando il nemico nelle politiche americane dello sfruttamento capitalistico e imperialista, anche il Reverendo King aveva fatto un discorso di rottura col governo per la sua aggressione in Vietnam e perché la politica della Great Society del presidente L. B. Johnson proseguiva nel tenere la popolazione nera assoggettata e in povertà. Capiva l’importanza dei problemi sociali ed economici dati dall’appartenenza di classe: “Ho lavorato per guadagnare a questa gente il diritto di sedersi in qualunque posto a mangiarsi un hamburger, e ora devo fare qualcosa perché possano avere i soldi per comprarli…”. Aveva cercato di capire i giovani dei ghetti e le rivolte che da quella di Watts a Los Angeles del 1965 si stavano susseguendo ovunque, toccando persino le città del Sud, dove prima per un decennio era stata attiva la classe media e piccolo borghese nera e avevano funzionato le tattiche delle marce, delle lotte non violente, disobbedire e farsi arrestare in massa. Ma adesso il linguaggio era diverso e anche il potere bianco, il governo, l’FBI non lo vedevano più come una garanzia capace di far accettare la gradualità e l’integrazione formale alle condizioni del potere bianco.


Più a contatto con una realtà urbana e incalzato dalle posizioni del Black Power di Stokely Carmichael e Rap Brown e soprattutto da quelle delle Pantere Nere, diventate maggioritarie in tutte le zone urbane, anche il Reverendo King concordava che la battaglia stava sul fronte economico e anche culturale: la comunità nera doveva serrare le proprie fila, e impadronirsi della propria storia, imporre nuovi corsi e dipartimenti di studio nelle scuole e Università, aprire centri di aggregazione per i giovani, trasformare le gang di strada in artefici dl cambiamento, organizzatori all’interno dei quartieri.


La sera dell’assassinio di Martin Luther King la poetessa June Jordan, Terri Bush e le altre colleghe della scuola popolare perragazzi, prima di andare alla Washington Square Methodist Church a testimoniare con letture pubbliche il proprio dolore, seguono i bambini che, non appena saputo la notizia, hanno chiesto matite e un foglio di carta. Sino a tardi tutti erano rimasti seduti a leggere, lavorando alle loro poesie, qualcuno continuava a scrivere ancora in macchina durante il viaggio di ritorno a casa. Le ragazze e i ragazzi, 12 anni circa, scrivono delle loro paure, del dolore ma anche delle loro speranze:


"Ho paura che/ la fiamma dell'odio/ mi brucerà" scrive Vanessa Howard e, Linda Curry, in "My Enemy” : Il mio nemico è il mondo/ Il mondo mi odia sta cercando di sbarazzarsi di me/ Qualcuno che lassù non mi piace”. E Michael Goode: “è così che non puoi nemmeno più/ uscire per strada,/ qualche maniaco potrebbe spararti/ a sangue freddo./ Che razza di mondo è questo?/ Non lo so.” Deborah Burkett così scrive nella sua poesia Viaggio: “Vorrei andare/ dove crescono le mele d'oro /Dove la luce del sole arriva a/ toccare i bambini per miglia e miglia/ Dove l'arcobaleno è limpido nel cielo/ E i passanti si fermano al loro passaggio/ Dove volano i fenicotteri rossi/ Immersioni per i pesci davanti ai loro occhi/ E quando vedrò tutti questi luoghi,/ tornerò a casa da te./ Fine.” E ancora la tredicenne Vanessa Howard implacabilmente mostra gli stereotipi del linguaggio nella sua poesia Ghetto: “Nove su dieci volte quando una persona ascolta la parola ‘ghetto’ essi/ pensano di persone di colore prima di/ tutto. Pensano che quasi tutti i/ bambini neri provengano da un ghetto con molti fratelli e sorelle./ Ghetto è diventata una definizione che significa/ aree nere, immondizia, baraccopoli. Per me la parola ghetto è cattiva quanto imprecare…”.


June Jordan è una poetessa, drammaturga, attivista politica e docente giamaico-americana che crede nella cultura come arma e il suo impegno nella comunità e nel movimento di lotta, parte dalla sua condizione di donna e di donna nera. Nata ad Harlem e cresciuta nella zona di Bedford Stuyvesant, Brooklin, Jordan apparteneva a una banda chiamata Royal Bops. Aveva imparato a combattere e a difendersi. “Ero una ragazza appartenente a una gang per necessità. In strada ho avuto un battesimo e una formazione. Era un bene che mia madre fosse un'infermiera, perché poteva rattopparmi.".


La sua produzione letteraria spazia dalla poesia ai racconti per bambini, al teatro, la saggistica. La poesia è profondamente autobiografica, impegnata sui diritti civili, la libertà sessuale e spesso presentando anche una nozione radicale e globalizzata di solidarietà tra gli emarginati e gli oppressi del mondo. Come ha scritto la giornalista e saggista Lynell George "June Jordan ha passato la sua vita a ricucire insieme il personale e il politico in modo che le cuciture non si vedessero".


La sua prima raccolta di poesie del 1969 Who Look at Me, rivolta ai giovani lettori, originariamente un progetto di Langston Hughes, onnipresente figura dell’Harlem Renaissance, si presenta con un linguaggio popolare e diretto e descrive diversi dipinti di neri americani, le cui stampe sono incluse nel libro. E’ sulla valorizzazione di quel Black English, linguaggio popolare, sbroccato, inventivo, musicale considerato un modo per mantenere viva la comunità e la cultura nera che lavora nella comunità afroamericana e soprattutto coi bambini e ragazzi neri e portoricani.


"Il ruolo del poeta, a cominciare dalla mia esperienza d'infanzia, è quello di meritare la fiducia di persone che sanno che quello che fai è lavorare con le parole" dice June Jordan “Quindi il compito di un poeta di colore, un poeta nero, in quanto popolo odiato e disprezzato, è quello di radunare lo spirito della tua gente ... Devo riunirmi e capire un angolo, una prospettiva, da offrire e che altre persone possono usare per rialzarsi, radunarsi e continuare o, meglio ancora, per saltare più in alto, per raggiungere più ampiamente in solidarietà con ancora più e diverse persone per realizzare qualcosa. Sento che è un compito spirituale. "


la foto di June Jordan:by Gwen Philips da Poetry Foundation da cui è tratta anche quella di Gwendolyn Brook https://www.poetryfoundation.org/poets/june-jordan

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