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GIORNO PER GIORNO 30 giugno - Parole vagabonde

30 giugno 1900

 

Le parole nomadi


Isabelle Eberhardt, Patti Smith, Karelle Ménine, scrivere sulla sabbia, scrivere sui muri.



L’orizzonte di Isabelle Eberhardt si sposta con Patti Smith e le installazioni di Karelle Ménine.


Il 30 giugno del primo anno dell’ultimo secolo del secondo millennio, secondo il calendario cristiano occidentale, Isabelle Eberhardt, scrittrice, giornalista e instancabile viaggiatrice è a Marsiglia fremendo per il desiderio di tornare nel Maghreb. Ha lasciato l’Africa sei mesi prima, passando da Tunisi si era fermata a Cagliari un mese per cercare di interpretare i segni del destino, costruirsi da sola il proprio futuro e soddisfare il bisogno di un vagabondaggio perenne per affrontare sé stessa, i propri limiti, per conoscere tutto e tutti. Era ripartita per Ginevra, sua città natale dove era nata e cresciuta negli ambienti libertari degli esuli russi antizaristi e poi da alcuni giorni si era fermata a Marsiglia il cui porto costituiva un invito a ripartire. Un irresistibile richiamo per una donna che sin da ragazzina aveva scelto di non accettare imposizioni e convenzioni sociali, moralismi sessuali, nazionalismi identitari e colonialismo, barriere e confini, che viaggiava in abiti maschili e che aveva persino adottato un nome arabo maschile, Mahmoud Saadi, come il poeta e viaggiatore arabo del XII secolo.


Queste parole della scrittrice sono capaci di riassumerne molti tratti: “Avere una casa, una famiglia, una proprietà o una funzione pubblica, avere un determinato mezzo di sussistenza ed essere un utile ingranaggio della macchina sociale, tutte queste cose sembrano necessarie, persino indispensabili, alla stragrande maggioranza degli uomini, compresi gli intellettuali, e anche coloro che si considerano completamente liberati. Eppure queste cose sono solo una forma diversa di schiavitù che viene dal contatto con gli altri, specialmente il contatto regolato e continuato”.


Patti Smith è sempre stata un’onnivora divoratrice di storie, curiosa e inquieta ama le figure femminili che dell’inquietudine e della curiosità avevano fatto un modo di vivere e di scrivere. Era impossibile che non si imbattesse e non amasse una donna come Isabelle Eberhardt. Nel 1975, più o meno nel periodo dell’incisione e pubblicazione del suo primo album Horses compone una ballata a lei dedicata, che inizia così:


Ho bisogno di un harem di uomini /così tanti ritmi nel /mio insaziabile girare /il vento la sabbia i mondi Abbraccio /il luogo più caldo /il triste ospedale /della mia anima /ondeggia mentre arrotolo /il terreno di nuova pelle


Isabelle Eberhardt, parlava con naturalezza russo e francese, tedesco e spagnolo, arabo e italiano e quando scriveva lettere e diari, articoli o racconti a volte usava inserire termini di lingue diverse. Anche in questa pagina di diario ci sono parole italiane e una frase russa mischiate al francese. “Sabato 30 giugno 1900. Dopo due giorni di noia mortale (ieri e oggi)e di sofferenza fisica, tento di rimettermi al lavoro. Sono sempre più disgustata dal mio secondo ‘io’ mascalzone e moralmente sbrindellato, che ogni tanto fa capolino. C’è da notare qualcosa di strano: quel personaggio appare generalmente, se non sempre sotto l’influenza di puri agenti fisici. Per cui un migliore stato di salute dovrebbe produrre un sensibile miglioramento della mia vita intellettuale e morale…”


Karelle Ménine, autrice e drammaturga, giornalista e docente di semiologia dell’immagine, fondatrice di Fatrasproduction, laboratori di creazione, scambio e riflessione su letteratura e lingua, è un’artista franco-ginevrina, un’artista così bella e incatalogabile che fa tornare fiducia nella funzione dell’arte, ne fa riscoprire la bellezza e il senso, scuote, sollecita, pungola ed è funambolica, giocosa e irridente quando serve. Come Isabelle Eberhardt ama gli sconfinamenti e sa come ribaltare il pensiero patriarcale. E ha un tocco magico, un’impronta surrealista, una pratica inclusiva, un amore per la letteratura che sa rendere fruibile e alla portata di tutti, disseminandone parole, frasi e concetti per ogni dove. A fine giugno del 2019, giusto per celebrare senza volerlo la data dell’emblematica pagina di diario di Eberhardt, sta avviando i preparativi per un’installazione nel centro di Ginevra che chiama “la Guardiana”, un’enorme struttura di metallo e legno che potrà essere visitata dall’interno per arrivare sino alla testa.


La gigantessa è alta sette metri, ci vogliono due settimane per crearla e quattro ragazze per realizzare il lavoro che verrà ultimato e inaugurato il primo di agosto. Ha un vestito costruito di parole, frasi prese in prestito dagli scritti di Isabelle Eberhardt assieme a altre scrittrici che in qualche maniera hanno avuto una relazione con Ginevra e la Svizzera, Grisélidis Real, Ella Maillart, Jeanne Hersch, S. Corinna Bille, Alice Rivaz, Agota Kristof, Mary Shelley o Niki de Saint Phalle. Alcune parole danno movimento all’insieme con l’inserimento della sfumatura di colore rosso Corona. Ci si infila sotto il vestito e, salendo una scala "Non entriamo nel corpo di una donna, ma nella sua mente." Nella testa , Karelle Ménine espone un testo in forma di lettera aperta, risposta a un famoso scritto del filosofo Arthur Schopenhauer del 1851. “Un orrore della misoginia che chiede sostanzialmente alle donne di restare a casa e di non avere la arroganza di pensare! Gli rispondo dicendo in sostanza che abbiamo tutto da guadagnare rispettando le nostre differenze, qualunque esse siano”.


All’inizio dell’anno sempre a Ginevra, nella zona de Les Grottes, dove Isabelle Eberhardt era nata nel 1877, Karelle Menine aveva curato la mostra Isabelle Eberhardt, dall'una all'altra (dal 17 gennaio al 7 aprile)con una esposizione delle opere originali della scrittrice. Attraverso diversi laboratori che avevano coinvolto cittadini di tute le età, le scuole e le attività commerciali aveva realizzato una letteratura di strada, che si affacciava tra case e vetrine di negozi. Una stuzzicante soluzione per riportare ad una giusta attenzione una scrittrice e un’artista troppo spesso dimenticata. “Ha aperto la strada alle prime giornaliste, è stata la prima donna a viaggiare da sola, spesso vestita da uomo, ha ispirato Ella Maillart. I suoi racconti sono stati tradotti in inglese da Paul Bowles, ma lei rimane stranamente poco conosciuta a casa sua in Svizzera”.


“L’altro ieri sera lunga discussione con Archivir sul tema – eternamente dibattuto tra noi – del piacere. Sostengo la mia teoria, diminuire i bisogni in modo da evitare al massimo le disillusioni e l’ottundimento della sensibilità provocati da sensazioni sgradevoli e dall’inasprirsi del carattere. Archivir sostiene che si devono sviluppare i bisogni e poi, mirare con tutta l’energia possibile ad appagarli. Secondo lui è questo ‘lo scotto dell’autoperfezionamento’.” continua la pagina del diario di Isabelle del 30 giugno 1900 che prosegue:


“Sono di nuovo in un periodo di incubazione intellettuale che sarà credo il più fecondo, finora, della mia vita. Mi ha fatto bene la lettura del ‘Diario dei Goncourt’. Dovrò approfittare del soggiorno a Marsiglia per leggere e annotare gli altri volumi. Finora avevo cercato letture che stimolano sogno e sentimento e questo ha causato un’ipertrofia della sensibilità poetica e questo a detrimento del pensiero puro.


il ‘Diario dei Goncourt’ è un libro che fa pensare profondamente. Cercare altre letture del genere e approfittare dei giorni che passo qui per parlare e discutere finché avrò ancora qualcuno intorno…Dal ‘Diario dei Goncourt’: ‘Ora nella nostra vita c’è un unico grande interesse, l’emozione dello studio dal vero’. Altrimenti la noia e il vuoto.”


Il periodo che Isabelle Eberhardt prevedeva fecondo sarà realmente tale, perché così lei aveva deciso per il suo futuro. Niente sino ad allora era riuscito a fermarla, né il deserto attraversato in solitaria né l’ostilità dei colonizzatori francesi che non vedevano di buon occhio le sue frequentazioni arabe e maghrebine, né la sua sfrontata libertà. Gli uomini la temevano, la rispettavano, in tanti si innamoravano di lei, qualche volta anche lei di qualcuno.


Al suo ritorno in Algeria s’innamora di un militare algerino, cittadino francese, che sposa, il vero amore della sua vita; scrive tantissimo, viaggia in zona di guerra e scrive per un giornale locale. Ogni tanto qualcuno la addita come spia degli inglesi, a volte degli arabi e persino dei francesi. Manda corrispondenze in Francia sotto pseudonimo, abbraccia un suo personale Islam e viene accettata nella comunità sufi per la sua conoscenza dottorale della sua storia e cultura. Subisce un attentato e rimane ferita. A 27 anni, convalescente, ritirata in una casa di fango nel villaggio di Aïn Sefra, viene sorpresa da un’inondazione disastrosa che distrugge il villaggio facendo una trentina di vittime. Lei è tra quelle. Solo la piena di un fiume era riuscita a fermarla.


Patti Smith aveva composto la sua ballata pensandola come una sorella viva a cui raccontare i propri desideri e inquietudini e da cui ascoltare il racconto:


“ho bisogno di un harem di saggezza /tempo che solletica l'arguzia che /affonda sangue di scareb /la ferita a mezzaluna /Una vita fa /ho supplicato un harem di dei/ e sono stato colpita al collo /il grande peso /il fiocco di idoli/teste ondeggianti di dèi /rese nella sciabola /di cuori abbandonati /mani sciolte.”



Karelle Menine, aveva lavorato con un’installazione di letteratura visuale lunga 10 chilometri a Mons in Belgio nel 2013 quando la città era diventata capitale europea della cultura. Lungo i muri della città srotola frasi e parole, unisce quelle di scrittrici e scrittori , di persone famose e quelle dei detenuti del carcere locale. Poi ha l’idea di fare un laboratorio visuale con i detenuti di Mons, dedicato alla poesia di Paul Verlaine, anche lui un tempo detenuto a Mons per due anni per aver ferito il suo amante-amato Arthur Rimbaud. Come per un miracolo, un legame mentale, un invisibile filo che passa sotto la sabbia del deserto e le acque dell’oceano, arriva una telefonata di Patti Smith: “Sono un fan di Verlaine, so che ci stai lavorando a Mons. Usami! “.


Il 18 ottobre del 2015 Patti Smith, partecipa nel carcere della città alla mostra dedicata a Verlaine, impugna la maledetta pistola con cui aveva ferito Rimbaud, scrive una poesia direttamente su uno dei muri del complesso carcerario, partecipa a un incontro pubblico, abbraccia Karelle Menine e il suo progetto di muri parlanti e parole vagabonde.


Karelle Ménine continua la sua opera letteraria nello spazio pubblico "affinché chi non legge più possa ritrovare le parole, questo bagaglio di infiniti orizzonti di cui tanto abbiamo bisogno".


“Un argomento a cui pochi intellettuali si dedicano mai è il diritto di essere un vagabondo, la libertà di vagare. Eppure il vagabondaggio è una liberazione e la vita sulla strada aperta è l'essenza della libertà. Avere il coraggio di spezzare le catene con cui la vita moderna ci ha appesantito (con il pretesto che ci offriva più libertà), poi prendere il bastone e il fagotto simbolici e uscire. ”(Isabelle Eberhardt)

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