GIORNO PER GIORNO 28 maggio - La musica di Django
- Andrea Colombu
- 28 mag 2021
- Tempo di lettura: 8 min
28 maggio 1932
Prime session di registrazione di Django Reinhardt dopo l’incidente che gli ha reso inutilizzabili due dita della mano sinistra.

Un gruppo di tecnici della Gramophone era arrivato a Tolone da Parigi a caccia di talenti musicali. Il loro giro di esplorazione nel Midi della Francia li aveva portati nella città occitana giusto in tempo per trovare in pieno svolgimento una delle scene musicali più eccitanti in quel momento: l’orchestra di Louis Vola che aveva appena ingaggiato per le serate al Le Lido due chitarristi incontrati per caso, Django Reinhardt e suo fratello Joseph, che tutti chiamavano Nin-Nin.
Non era la prima volta che l’allora ventunenne Django Reinhardt entrava in uno studio di registrazione, aveva inciso alcuni brani con altri musicisti già nel 1918, a diciotto anni, sempre per la Gramophone, quando ancora possedeva il controllo di tutta la mano sinistra. Ora per la prima volta suonava in studio la chitarra solista dopo il terribile incidente che l’aveva privato dell’uso dell’anulare e mignolo della mano per produrre gli accordi nella tastiera.
Louis Vola, fisarmonicista e piccolo imprenditore, aveva un forno, mentre rincasava dopo un concerto si era imbattuto in due musicisti che anche da lontano gli erano sembrati avere un suono particolarmente efficace. Django e Nin-Nin suonavano “a cappello” al porto davanti a una piccola folla di tiratardi. La tecnica chitarristica e la verve inventiva del primo gli erano apparse subito straordinarie e ai due chitarristi non gli era sembrato vero poter avere un ingaggio e un po’ di soldi sicuri. L’accordo venne siglato all’istante e l’orchestra del Lido si presentò già il giorno successivo con la nuova formazione e un suono tremendamente eccitante, che spingeva la gente a ballare e a chiedere bis e che lasciava strabiliati i più nel sentire e vedere le fantastiche acrobazie di quel giovane zingaro con i baffetti la cui mano sinistra usava solo due dita per giocare e ballare sulla tastiera della chitarra.

Ciò che i tecnici Gramophone videro al Le Lido li convinse alla registrazione di sei brani, tre dei quali con Django e suo fratello. In realtà qualche perplessità dovevano averla, perché quella roba che facevano quei due strani chitarristi portava un po’ fuori dalla musica che si praticava e che andava per la maggiore, la musette, una forma di Danse che si era affermata dalla commistione di vari generi e influenze e provenienze geografiche, italiane del sud, francesi di varie zone, tzigane e dell’est europeo.
Django, Jean all’anagrafe, era il nome vero che i genitori, clan manouche, etnia Romanì (o Rom) gli avevano dato, col significato di “Son sveglio”. Il cognome variava, a seconda delle trascrizioni della gendarmeria e dei territori attraversati che trascrivevano secondo la grafia del luogo, o, qualora fossero per qualche circostanza in fuga o solo un po’accorti e defilati, con le varianti che essi dettavano. Famiglia di musicisti e circensi, giravano per fiere e mercati, rimanendo stanziali per mesi con il loro carrozzone tra la Francia e il Belgio. E in Belgio, a Liberchies era nato Django, celebrato in quanto primogenito con una festosa manifestazione che aveva coinvolto l’intera popolazione della cittadina con il sindaco a fare da padrino. Erano tempi in cui l’arrivo dei nomadi Rom era visto con interesse e curiosità, come rottura della monotonia quotidiana. Quando gli abitanti dei villaggi vedevano arrivare i loro carrozzoni tirati dai cavalli si sapeva che avrebbero potuto far aggiustare le pentole di rame e gli utensili da lavoro, avrebbero potuto comprare cestini intrecciati e bigiotteria, assistere per pochi spiccioli a spettacoli e concerti. Passava quasi in secondo piano e tollerabile persino la sparizione al loro passaggio tra le fattorie, di alcune galline, operazione in cui lo stesso Django bambino divenne esperto.

Django, poco propenso allo studio, analfabeta per tutta la vita, nonostante la presenza di un volenteroso maestro che si impegnava negli accampamenti, sin da piccolissimo si era guadagnato l’indipendenza nonostante la costante attenzione di sua madre, chiamata Negros per la sua mora bellezza. Cacciava, pescava, rubacchiava, tanto da diventare il principale procacciatore di cibo quando suo padre lasciò la famiglia prima che lui compisse dieci anni. Prima ancora, affascinato dai musicisti che suonavano la sera nei loro accampamenti, aveva voluto uno strumento tutto per sé, insistendo fin quando non gliene fu regalato uno che aveva la cassa di un banjo e il manico di chitarra, strumento molto diffuso tra i Rom di quell’area e soprattutto tra i manouche.
L’indipendenza di Django e la sua bravura con il banjo erano cresciute notevolmente durante gli anni del soggiorno all’accampamento alla Zone, periferia di Parigi, forse il più grande e organizzato villaggio ambulante di tutta Europa. A dieci anni si era già inoltrato da solo o in compagnia del fratello più piccolo per le strade di Parigi tirando su piccole somme con le sue esibizioni agli angoli di strade trafficate. A dodici anni aveva iniziato a suonare ufficialmente nei locali, bettole dove si ballava e si incontravano persone più diverse. Mamma Negros, sera dopo sera, andava a prendere a fine serata Django, già da allora diviso tra fedeltà alla cultura libera e aperta dei manouche e il mondo dei Gadjè, il resto della popolazione non Rom, più ricca ma meno autentica, legate a restrizioni materiali e mentali.

Django aveva orecchio, intuizione ed era un attentissimo osservatore. Si era educato da solo ai misteri del suono e dell’arte musicale, cercando di imitare le posture, i movimenti che i più grandi assumevano e le posizioni delle loro dita sulla tastiera per formare gli accordi. Lo strumento, il suo banjo gli forniva la possibilità di improvvisare. Una volta assimilate tecniche e melodie le personalizzava, continuava a variare, aggiungere come per mettersi alla prova e combattere la ripetitività. Aveva capito come accompagnare il suono della fisarmonica, strumento principe nelle sale da ballo, introdotta dagli italiani dall’inizio del secolo, sostituendo il monopolio precedente delle meno duttili cornamuse dei musicisti dell’Auvergne. Tra tutte le fisarmoniche le più adatte per il pubblico dei bistrot e delle sale da ballo erano quelle coi tasti a pulsante, che permettevano arpeggi veloci ai musicisti più popolari come Emile Vacher, la cui orchestra aveva già inserito i nuovi strumenti usati oltreoceano dai musicisti neri dell’hot jazz: batteria e banjo, solitamente suonato da musicisti Rom, come i ben presto famosi Mattèo Garcia e Gusti Malha, compositori e beniamini del pubblico.

A dodici anni Django Reinhardt era stato notato e ingaggiato da un capo orchestra e fisarmonicista, Vetese Guerino, che ogni sera teneva concerti in vari locali: il giovanissimo ragazzo gli era sembrato più che promettente. E più che promettente lo era di sicuro, ma anche indisciplinato e dissipatore dei guadagni che gli venivano dalla musica. Dopo aver contribuito alle spese della famiglia Django non tratteneva nulla, sin da allora amava il gioco, le scommesse e condividere la sua piccola fortuna economica con le decine di cugini e amici. E così sarà per tutta la vita.
La musica del giovanissimo Django era virtuosismo e potenza, spontaneità e precisione, improvvisazione e puntualità. Prima ancora di conoscere il jazz, ne aveva lo stile, l’attitudine, lo swing. Spesso strabiliava, a volte spaventava il suo oltrepassare non previsto il limite canonico della musette e i suoi assoli non concordati. A quindici anni il maestro Maurice Alexander gli aveva fatto una proposta economica migliore, ma poi il ragazzo sempre irrequieto e ribelle alle abitudini (e ai suoni scontati) aveva preferito l’orchestra di Fredo Gardoni, per poi tornare più volte con Alexander. Ormai era un musicista conteso dalle migliori orchestre da ballo, nonostante l’indisciplinatezza che lo portava a saltare alcune serate quando preferiva la compagnia degli amici e della sua fidanzata. Talvolta al suo posto compariva il fratello o un qualche cugino. Ma era anche ambizioso e sicuro delle proprie capacità e della volontà di non porre limiti alla sua personale ricerca.
Gli stava stretto anche il ruolo di accompagnatore, anche se già dodicenne gli avevano assegnato il posto più vicino al fisarmonicista. Anche come compositore si era segnalato, anche se ufficialmente, tra i 12 e i 18 anni sappiamo di soli quattro valzer da lui composti e venduti ad altri musicisti. Come si usava allora, meglio un po’ di soldi (da spendere) subito, che registrare i diritti e intascare chissà quando. Così si comportavano tutti i più quotati musicisti zingari, lontani dall’idea di possesso di quanto creavano.

Nel mentre in tutta Parigi iniziava a diffondersi la nuova musica americana, portata dalle orchestre militari dell’esercito USA, arrivate alla fine della Grande Guerra. L’accoglienza riservata ai musicisti neri li aveva convinti a piccoli gruppi a tornare nei primi anni Venti del Novecento. Il gruppo dei musicisti si rinfoltiva, c’era meno razzismo e paghe migliori e migliore considerazione da parte del pubblico francese.
I ritmi sincopati e dinamici del jazz annunciavano un clima di ribellione alla consuetudine della musica europea, classica o popolare. I musicisti europei erano abituati a leggere la musica, molti l’avevano studiata, ora il jazz era facile da capire nella sua essenza, l’improvvisazione e la fusione dei suoni. Ben più difficile realizzarlo. A Django Reinhardt la cosa sembrava più che naturale ed aveva iniziato per conto proprio a esercitarsi e a eseguire incursioni jazz dentro le musiche delle serate da ballo.
La sua vita pare cambiata, Django innamoratissimo si è appena sposato e ha una nuova roulotte vicino a quella della madre e dei suoceri e una svolta sembra imminente. Si presenta nella persona di un impresario inglese, Jack Hylton, arrivato a Parigi alla Java proprio per ascoltare quel suonatore di banjo che improvvisava jazz sopra un altro tipo di musica. L’offerta è tremendamente buona per non essere accettata e il suo stesso capo orchestra, Alexander lo invita a provare il grande salto, riservandogli comunque un posto al suo fianco qualora fosse tornato.
La notte, Django torna all’accampamento e alla sua roulotte. Bella, la moglie incinta, dorme già. Ha lavorato tutta la sera a preparare addobbi in carta e celluloide che le sono stati ordinati. Basta un gesto inopportuno e sbadato e una candela cade nel pavimento di legno, tra i fiori appena realizzati. Tutto va a fuoco. Django ha la prontezza di far alzare e mettere in salvo Bella, poi si copre con una coperta per uscire prima che tutto prenda fuoco. Quando ci riesce ha parte del corpo in fiamme con i vestiti che bruciano e la mano che aveva tenuto la coperta piagata e coi nervi e tendini lesionati irrimediabilmente.

All’ospedale, quello riservato agli indigenti, vorrebbero amputargli la gamba, ma la famiglia lo porta via, lo curano in casa, e la gamba non va in cancrena, ma le ustioni non guariscono. Si fa una colletta al campo e gli pagano il ricovero temporaneo in una clinica specializzata privata, poi il ritorno in quella per indigenti. Il miglioramento è lento, l’umore sotto i piedi. Django ha perso l’uso dell’anulare e del mignolo della mano sinistra. Non solo è sfumato il contratto con l’orchestra inglese, è sfumato tutto. Gli portano comunque una chitarra e Django ci prova e riprova fino a capire che qualcosa si può fare, si possono fare gli accordi in un’altra maniera, utilizzando molto più velocemente le due dita utili e facendole scorrere diversamente sulla tastiera.
Dopo mesi è di nuovo in giro, il rapporto con la moglie raffreddato, si lasciano consensualmente e lei si risposa e il loro bambino viene adottato dal nuovo marito. Il rapporto con Joseph, Nin-Nin sempre più solido e infine il ritorno dall’Italia della sua prima fidanzata, Naguine.
I tre cominciano a girare per la Francia, per lo più a piedi, anche per grandi distanze. Sono poveri ma non arrendevoli. Django e Nin-Nin, riprendono a suonare in paesi e città per stabilirsi secondo le stagioni, tra la Costa Azzurra e Parigi. Tutto riprende a girare, nuove prospettive, persone che amano il jazz che li ospitano e che mettono a disposizione album delle Big Band americane e alloggio per loro e per tutta la parentela di passaggio.
Infine a 22 anni Django incontra Louis Vola e il 28 maggio del 1932 incide con lui tre brani per la Gramophone. Il resto sarà un crescendo di opportunità, spreco, gioia, avventatezza, fortuna e sciupio, e soprattutto genialità, innovazione e creatività.
Il suo lascito rimarrà per sempre nella musica popolare e nel jazz, diventando quasi un’etichetta quella che richiamava il nome della sua gente: musica manouche, gipsy jazz.
Django Reinhardt & Louis Vola - Carinosa - Toulon, 28.05.1931
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