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GIORNO PER GIORNO 27 maggio - Light my fire

27 maggio 1431

 

Light my fire



Si possono perdonare tante colpe a una donna, ma non la libertà. Si possono assolvere tutti i peccati, ma non la parità. E indossare abiti maschili vuol dire volere essere come un uomo, sullo stesso livello, con gli stessi diritti e le stesse libertà. E questo è imperdonabile. A Giovanna d’Arco era stato perdonato tutto quello di cui avevano deciso di accusarla: l’invocazione degli spiriti maligni, le false profezie e la stregoneria. Ma quando - il 27 maggio 1431 - la ritrovano con dei pantaloni addosso, non perdonano: stracciano l’abiura e accendono il rogo. Perché sono gli abiti maschili e null’altro a condannare formalmente la pucelle d'Orléans, una ragazzina di 19 anni, a morire tra le fiamme. Sono i pantaloni a condannare anche Helen Hulick – brillane educatrice – a cinque giorni di carcere negli Stati Uniti del 1939. Abiti maschili, gli stessi che firmano la dannazione di un gruppo di donne norvegesi bollate come streghe nel Seicento e che fanno rischiare 40 frustate a Lobna Ahmed Al Hoseini, giornalista sudanese, che aveva indossato jeans in pubblico nel 2009. Sono i pantaloni a condannare le vergini giurate d’Albania a una vita di rinunce, anche se alla pari. Perché se vuoi i diritti di un uomo, allora devi diventare uomo. Perché una donna libera non è prevista.


GIOVANNA D’ARCO. Ma torniamo al 1431: Francia e Inghilterra sono dilaniate dalla Guerra dei Cent’anni. L’Inghilterra sembra avere la meglio quando una ragazzina, che dice di essere mandata da Dio, si mette a capo dell’esercito francese e ribalta le sorti della Storia con una serie di insperate vittorie. “La meraviglia del nostro sesso”, così la definisce Christine de Pizan – prima intellettuale donna del suo tempo e di molti a venire – che la celebra scrivendo che nel cuore di lei “Dio ha messo più coraggio che in un uomo”. Non è l’unica: le donne del popolo accorrono al suo passaggio e le fanno battezzare i nuovi nati. Le bambine vengono chiamate tutte Giovanna. Lei continua a vincere battaglie e la gente la ama e la crede santa. Per gli stessi motivi è detestata dagli inglesi, il 3 gennaio 1431, il re d’Inghilterra pubblica un manifesto in cui fa scrivere: “…è noto che da un po’ di tempo una donna che si fa chiamare Giovanna la pulzella ha lasciato l’abito femminile che è cosa contro la legge divina, abominevole a Dio, svergognata e proibita da ogni legge. Vestita, abbigliata e armata in abito d’uomo, ha esercitato delitti crudeli di ogni tipo. Omicidi…”. Per il sovrano è più grave l’abbigliamento maschile che l’assassinio. Almeno così fa supporre l’ordine scelto per le accuse. Pochi mesi dopo Giovanna è presa assieme ai compagni d’armi, tra cui il fratello. Tutti pagano il riscatto e tornano a casa, come si usava all’epoca per fare cassa. Ma per Giovanna non c’è questa possibilità. Per lei, oltre la prigionia, c’è il processo per eresia. La pucelle d'Orléans si difende, spesso chiama il pubblico a testimone per far rettificare i verbali, tiene testa ai suoi accusatori senza mai cadere nei tranelli teologici in cui cercano di farla inciampare. Perché un processo per eresia è pur sempre un processo e formalmente dev’essere legale. Anche se tutti sanno come andrà a finire, tanto che molti teologi si rifiuteranno di prender parte a quella farsa.


Tra le accuse pesantissime c’è quella di aver abbandonato la modestia del suo sesso. Sugli abiti maschili giudici e inquisitori insisteranno molto, forse perché sanno che su quello potranno condannare legalmente la ragazzina. Durante il processo, mentre è reclusa a Rouen, le promettono che se si vestirà da donna la faranno partecipare alla messa. Lei accetta, purché sia chiaro che non resterà vestita così per sempre. Arriva il sarto in cella per le misure, lei sente troppo quelle mani e gli molla una sberla che fa saltare tutto. Alla fine del lungo procedimento Giovanna viene condannata, le fanno vedere il rogo, le elencano le sue colpe e lei – dopo tanti rifiuti – cede e firma. Abiura a tutto, dice di essersi sbagliata e, ovviamente, che non vestirà più da uomo. Giovanna viene sì perdonata, niente rogo, ma le sue colpe sono così gravi che per lei c’è il carcere a vita. È il 24 maggio 1431, le danno abiti da donna che lei indossa per andare in prigione. Pochi giorni dopo, il 27 di maggio è nuovamente vestita da uomo. Come arrivano in cella quegli abiti maschili è difficile dirlo ma facile immaginarlo. Dopo aver ammesso che vestirsi da uomo era un’offesa alla chiesa, Giovanna ci ricasca e ‘sta volta non c’è perdono. Il 29 si riunisce nuovamente il tribunale: è ricaduta nella colpa. Il giorno dopo la portano sul rogo, accendono la pira mentre la folla piange e alcuni giudici hanno un malore. Giovanna muore pochi minuti dopo, soffocata dai fumi. Spengono il fuoco per mostrarla alla gente: è morta ed è donna. Non devono esserci dubbi su questi due punti. Riaccendono la pira per bruciare il corpo di Giovanna e disperdere le sue ceneri.


LE STREGHE NORVEGESI. Passano due secoli e la storia si ripete, cambiano le latitudini, cambiano le accuse e le motivazioni, ma violenza e brutalità restano le stesse. Così come immutati sono sospetti e diffidenze che sollevano le donne in pantaloni. Siamo a Vardø, estremo Nord della Norvegia e un numeroso gruppo di donne indossa vestiti maschili per andare a pescare. Non hanno nessuna missione divina, nessuna rivendicazione da portare avanti. Combattono solo la battaglia per la sopravvivenza perché se non pescano moriranno di fame e per pilotare le barche nel gelido mare di Barents ci vuole un abbigliamento adeguato. E gli uomini? Perché non pescano loro? Perché sono tutti morti. Alla vigilia di Natale del 1617 una terribile tempesta si era abbattuta sul Finmark senza lasciare scampo ai pescatori che erano usciti in mare. Onde altissime non lasciano scampo e solo molti giorni dopo l’acqua restituirà i 40 cadaveri. Il villaggio – che vive di sola pesca - resta senza uomini e le donne, dopo la disperazione e il lutto, devono affrontare la fame e prepararsi al prossimo lungo inverno. Quando arriveranno gli inquisitori, in quelle terre lontane troveranno donne sole, e dunque esposte alle tentazioni di Satana, che in abiti maschili svolgono lavori da uomini. Tra loro, colpa nella colpa, ci sono dei Sami che da sempre venerano il vento e compiono strani riti magici. Torture e violenze inaudite riporteranno l’ordine, dopo aver trasformato il villaggio nella capitale delle streghe, con un clamore tale che porterà a collocare qui la porta dell’inferno. A gennaio del 1621 inizia il processo alle streghe di Vardø con un centinaio di colpevoli - tra donne indipendenti e Sami - giustiziati sui roghi. Dal 2011 un memoriale è stato eretto in ricordo delle vittime di quel massacro.



LA MAESTRA IN CELLA. Storie di epoche lontane, di posti sperduti. E invece no, i pantaloni continuano a scatenare le ire dei giudici anche nella “civile” America del 1939. Helen Hulick è passata alla storia come brillante educatrice, pioniera che rivoluzionò le tecniche pedagogiche rivolte ai bimbi con problemi di udito e linguaggio. Un’innovatrice che fece notizia per essere finita in prigione a 28 anni, rea di aver indossato dei calzoni. Nel novembre 1938 Hulick è convocata in tribunale come testimone di un furto con scasso avvenuto nel suo appartamento. Si presenta davanti alla Corte in pantaloni e il giudice Arthur S. Guerin sospende l’udienza invitando la ragazza a ripresentarsi in abiti femminili. Lei non si lascia intimorire, anzi si fa battagliera e si ripresenta in tribunale in calzoni dai colori sgargianti. Il magistrato va su tutte le furie, l’accusa di aver attirato l’attenzione di tutti, di aver offeso la Corte e le dà un’ultima possibilità. La giovane mastra d’asilo non retrocede di un millimetro, si porta dietro un avvocato e per la terza volta si presenta davanti al giudice senza cambiarsi d’abito. Lui la condanna a cinque giorni di prigione, lei entra in cella ma il suo legale porta la questione davanti alla Corte d’appello che sancisce il diritto di Hulick e di tutte le donne di indossare i pantaloni.


LE FRUSTATE IN SUDAN. Certo nel ’39 le donne in pantaloni non erano poi tante e il ’68 con la sua rivoluzione dei costumi era ancora lontano. Eppure è del 2009 il processo contro la giornalista Lobna Ahmed Al Hoseini che ha rischiato 40 frustate per dei jeans, trasformando il suo processo in una battaglia per i diritti delle donne del Sudan. La giornalista era stata fermata dalla polizia mentre era al ristorante con altre donne colpevoli come lei di vestire pantaloni. Alcune si sono subito dichiarate colpevoli e sono state frustate, lei ha scelto di il processo perché «sono pronta ad affrontare ogni tipo di pena e non ho paura. Il mio obiettivo principale è quello di arrivare alla cancellazione dell'articolo 152 del codice penale che prevede questo tipo di reato che io ritengo ingiusto in quanto contrasta con la nostra Costituzione e con la sharia», come ha sempre dichiarato. Durante il processo a Lobna centinaia di donne, molte in pantaloni, si sono radunate davanti alla Corte per esprimerle solidarietà. A loro si sono contrapposti uomini in abiti tradizionali che le accusavano di essere prostitute e di vestire abiti indecenti.


LE VERGINI GIURATE. Sopravvivono ancora le ultime vergini giurate d’Albania. Donne divenute uomini pur di essere libere. Nulla a che fare con l’orientamento sessuale, nulla a che vedere con questioni di look o travestimenti. Si tratta di donne che, pur di sottrarsi a un destino di sottomissione, hanno scelto di formulare un pesante giuramento: rinunciano a una vita da donna, ai figli, al sesso. Scelgono un nome da uomo, indossano capi maschili, possono avere il fucile e bere alcol nei bar. Hanno diritti e responsabilità da uomo. La comunità le riconosce, riconosce la loro scelta. Una decisione da cui è impossibile tornare indietro, almeno lo era fin quando il diritto consuetudinario è rimasto saldamente in vigore. Alcune sono diventate vergini giurate per sottrarsi a un matrimonio indesiderato, altre perché orfane e con i fratelli da accudire, altre per il solo desiderio di libertà. Ma una donna libera non esiste, una donna sola non può vivere. E allora per essere libere si diventa uomini, vergini giurate, burrneshe.


Immagini:

Statua di Giovanna d'arco, Hotel Groslot, Orleans; Francia

René Falconetti nel film di Carl Theodor Dreyer La passione di Giovanna d’Arco

Memoriale delle pescatrici di Vardø

Helen Hulick in tribunale 1938

Dijana Rakipi, burrneshe, vergine giurata











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