GIORNO PER GIORNO 20 giugno - Nessun Vitcong mi ha mai chiamato negro
- Andrea Colombu
- 20 giu 2021
- Tempo di lettura: 5 min
20 giugno 1967
“Nessun Viet-cong mi ha mai chiamato negro”

Cassius Clay-Muhamad Alì, dopo essere stato privato del titolo mondiale dei pesi massimi, viene condannato per aver rifiutato l’arruolamento nell’esercito americano. Nello stesso giorno, quasi simbolicamente, la Camera dei rappresentanti USA vota la legge che punisce l’atto di bruciare la bandiera. Dopo la votazione a stragrande maggioranza, i deputati si sono accorti di aver votato una legge in cui non compariva la parola “bruciare”.

«La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle scura, o a gente povera e affamata che vive nel fango, per la gloria della grande e potente America. E perché poi dovrei sparare ai Vietcong? Nessuno di loro mi ha chiamato mai negro, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai strappato dal mio Paese, non hanno mai stuprato mia madre e ucciso mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora preferisco andare in galera». Così Muhammad Alì, un tempo conosciuto come Cassius Clay spiegava le sue ragioni, quando presentatosi al centro di reclutamento dell’esercito a Houston il 28 aprile del 1967 per tre volte, chiamato all’appello aveva rifiutato di rispondere.
Al processo del 20 giugno 1967, alla giuria che esaminava il caso di Muhammad Alì ci vollero soli 21 minuti per dichiarare il pugile colpevole di renitenza alla leva militare. Un record come i tanti che Alì aveva collezionato sino ad allora: due minuti per abbattere al tappeto per la seconda volta nella rivincita l’ex campione del mondo Sonny Liston e quindici riprese vinte tutte e quindici più che nettamente con Patterson, l’altro ex campione dei pesi massimi, giusto per giocare come un gatto col topo e fargli male sino alla fine, così imparava che il vero e unico nome di chi lo stava massacrando di botte era Muhammad Alì e non più Cassius Clay.

Dopo il verdetto, Alì chiese che la sentenza fosse pronunciata immediatamente, e il giudice distrettuale degli Stati Uniti Joe Ingraham, fu velocissimo e lo condannò a cinque anni di carcere e una multa di 10.000 dollari, la pena massima per quel reato. «Mi oppongo fermamente al fatto che così tanti giornali abbiano dato al pubblico americano e al mondo l'impressione che io abbia solo due alternative in questa posizione: o vado in prigione o vado nell'esercito. C'è un'altra alternativa, e quell'alternativa è la giustizia». Aveva detto Alì, «Se prevarrà la giustizia, se i miei diritti costituzionali saranno rispettati, non sarò costretto ad andare né nell'esercito né in prigione. Alla fine, sono fiducioso che la giustizia verrà a mio favore, perché alla fine la verità deve prevalere». Il giorno successivo, gli avvocati di Alì avevano pronto il ricorso. Record per record, ci vollero quattro anni e otto giorni per annullare la condanna.
La coincidenza accidentale tra la legge a “protezione della bandiera” votata con la dimenticanza della parola “bruciare” e la sentenza contro Alì hanno origini comuni nel movimento di massa contro la guerra in Vietnam.
La battaglia del Congresso USA per rendere sacra la bandiera aveva radici antiche: nel Paese che in nome del commercio permetteva tutto, nel 1907 la Corte nel processo Halter contro il Nebraska aveva confermato una legge statale che proibiva a due uomini d'affari di vendere birra con etichette raffiguranti la bandiera sulle bottiglie. Da allora le sentenze si erano susseguite sempre uguali, ma da metà anni Sessanta l’opposizione popolare contro la guerra aveva trovato nella bandiera a stelle e strisce un simbolo da contestare. La legge del 1967, corretta poi con l’inserimento della parola mancante, recitava che era illegale «consapevolmente gettare disprezzo su qualsiasi bandiera degli Stati Uniti mutilandola pubblicamente, deturpandola, contaminandola, bruciandola o calpestandola».
In verità da ogni parte i vari movimenti degli studenti, degli afroamericani, dei nativi e delle minoranze avevano quasi sempre adottato pratiche di contestazione ben più creative. Negli stessi giorni in cui veniva approvata la legge, in una grande manifestazione a Los Angeles le bandiere esposte in alcuni edifici pubblici venivano sostituite con palloncini colorati sull’esempio delle pratiche adottate nei campus universitari quando si mettevano sotto assedio i centri di reclutamento. Molto spesso nelle carceri militari durante azioni comparivano bandiere rovesciate come quelle portate dai nativi che ci aggiungevano la scritta American Indian Movement.

L’applicazione della legge a protezione della bandiera da allora sino ad oggi si è scontrata con i ricorsi di quanti arrestati o denunciati per “oltraggio alla bandiera” vincevano la battaglia appellandosi al diritto costituzionale di esprimere le proprie idee.
«Perché dovrebbero chiedermi di indossare un'uniforme e andare a 10.000 miglia da casa e lanciare bombe e proiettili su gente con pelle scura in Vietnam mentre i cosiddetti negri a Louisville sono trattati come cani?», aveva detto Muhammad Alì al momento del rifiuto di prestare servizio militare. e Poi: «Il mio nemico sono i bianchi, non i Viet Cong, i cinesi o i giapponesi. Sei il mio oppositore quando voglio la libertà. Sei il mio oppositore quando voglio giustizia. Sei il mio oppositore quando voglio l'uguaglianza. Non mi difendi nemmeno in America per le mie convinzioni religiose, e vuoi che vada da qualche parte a combattere, ma non mi difendi nemmeno qui a casa?».
In quel momento, ogni settimana i bombardamenti americani ammazzavano mille civili vietnamiti a settimana, morivano cento soldati americani al mese e la guerra costava due miliardi di dollari al mese: tutte cifre tenute nascoste. Il rifiuto di Alì di andare a combattere aveva messo la guerra davanti agli occhi di tutti. Sempre più una larga fetta dell’opinione pubblica si schierava per la cessazione dell’attività bellica e una parte significativa di giovani faceva crescere le fiamme dell’opposizione più radicale. Come scrisse il giornalista Julian Bond: «potevi sentire la gente che ne parlava agli angoli delle strade. Era sulla bocca di tutti. Le persone che non avevano mai pensato alla guerra prima hanno cominciato a pensarci su a causa di Alì. Le increspature erano enormi».
Avevano privato Alì del titolo di campione mondiale, gli avevano tolto la licenza per riprendere a boxare, ma a suo favore si erano espressi gli atleti neri di tutte le discipline, era invitato a parlare nelle università e nei centri culturali delle comunità afroamericane, avevano manifestato per lui in tutti gli Stati Uniti, ma anche in Africa e in Asia.

«Alcune persone pensavano che fossi un eroe. Alcune persone hanno detto che quello che ho fatto era sbagliato. Ma tutto quello che ho fatto è stato secondo coscienza. Non stavo cercando di essere un leader. Volevo solo essere libero. E ho preso una posizione che tutte le persone, non solo i neri, avrebbero dovuto pensare di prendere, perché non erano solo i neri ad essere arruolati». Aveva dichiarato Muhammad Alì.
Lui, che in passato aveva usato la lingua, il suo incessante parlare fuori e dentro il ring per intimorire gli avversari, adesso aveva un modo nuovo e più efficace per esprimere le sue convinzioni e la rabbia: «La boxe non è niente, serve solo per soddisfare alcune persone assetate di sangue. Non sono più un Cassius Clay, un negro del Kentucky. Appartengo al mondo, il mondo nero. Avrò sempre una casa in Pakistan, in Algeria, in Etiopia. Questo è più che avere denaro».
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