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GIORNO PER GIORNO 17 giugno - Un Uragano contro l’ingiustizia

17 giugno 1966

 

Un Uragano contro l’ingiustizia, storia di Rubin Hurricane Carter

La polizia arresta il pugile Rubin Carter Hurricane, in procinto di diventare il campione dei pesi medi. Rimarrà 19 anni innocente in carcere con l’accusa di omicidio plurimo, una campagna popolare per la sua liberazione, il brano Hurricane inciso da Bob Dylan



Colpi di pistola risuonano nel bar notturno, Entra Patty Valentine dal ballatoio superiore Vede il barista in una pozza di sangue, Grida: "Mio Dio, li hanno uccisi tutti!" Qui inizia la storia di Hurricane L’uomo che le autorità hanno accusato Per qualcosa che lui non ha mai fatto L'hanno messo in prigione, ma un tempo lui avrebbe potuto essere Il campione del mondo


17 giugno, 2,30 del mattino, due uomini afroamericani entrano al bar Lafayette di Paterson nel New Jersey, sparano e lasciano a terra morti due baristi, gravemente ferita una donna che morirà il mese dopo e un uomo che perderà un occhio. Poi scappano. Intorno si aggira con un complice un uomo che stava preparando una rapina. Si chiama Alfred Bello, nel mentre una ragazza da l’allarme, lui descrive la macchina, bianca, dei fuggitivi.



Patty vede tre corpi stesi a terra E un altro uomo chiamato Bello, che si muove misteriosamente. "Io non l'ho fatto" disse lui alzando le mani "Stavo solo derubando la cassa, spero che tu capisca Li ho visti uscire" disse, e si fermò "Uno di noi farebbe meglio a chiamare la polizia" E cosi Patty chiamò la polizia Arrivarono sulla scena con le lampeggianti luci rosse Nella calda notte del New Jersey.

Nel frattempo, lontano in un'altra parte della città Rubin Carter e alcuni amici girano in auto Il primo contendente della corona per i pesi medi Non ha idea di che merda stava per succedere Quando un poliziotto lo fece accostare sulla strada Come altre volte prima e prima ancora A Paterson questo è solo il modo in cui vanno le cose. Se sei nero non devi farti vedere per strada A meno che non vuoi accettare la sfida


Mezz’ora dopo, in Lafayette street transita una macchina bianca con due uomini a bordo, entrambi afroamericani. Uno è il famoso pugile dei pesi medi Robin Carter, residente in città, col suo amico John Artis. I due vengono arrestati, ma nessuno dei testimoni, né l’uomo ferito, né i clienti presenti al bar li riconosce.


Alle 4 del mattino trascinarono Rubin dentro Lo portarono in ospedale e su per le scale L’uomo ferito lo guardò attraverso il suo occhio morente Disse "perché l'avete portato qui? non è lui!"


Sette mesi dopo una giuria di soli bianchi condanna Robin Carter e John Artis all’ergastolo. Robin Carter è l’uomo giusto se si vuole trovare un colpevole a tutti i costi. Prima di diventare il pugile che aveva messo a terra il campione mondiale dei welter passato ai pesi medi, prima di diventare pugile, all’età di quattordici anni aveva conosciuto il riformatorio, con una condanna per furto e aggressione. Poi la fuga e l’arruolamento nell’esercito in Germania, costretto a congedarsi perché “inadatto alla vita militare” dopo quattro condanne per insubordinazione. Tornato in America, doveva scontare ancora undici mesi per la fuga dal riformatorio. A cui segue un’altra rapina e una condanna a quattro anni. La storia di tanti giovani nei quartieri afroamericani delle città americane. Ma Rubin è indocile alla disciplina, ma non a quella che si autoimpone. Durante i 21 mesi sotto le armi aveva iniziato a boxare e al termine della condanna riprende. Si allena, si dà regole di comportamento, diventa professionista. Potente, aggressivo, spavaldo si presenta con la testa rasata e una sicurezza nelle gambe e nei pugni. Diventa il beniamino del pubblico che lo soprannomina Hurricane e anche i giornali sportivi lo notano e lo inseriscono tra i migliori della categoria. Intanto come tanti neri che diventano celebri, sfrutta la notorietà per parlare delle discriminazioni che subiscono gli afroamericani e spiegare le ragioni delle rivolte nere che si susseguono in tante città degli Stati Uniti.


Tutte le carte di Rubin erano state marcate in anticipo

Il processo fu un circo di maiali, non aveva possibilità l giudice fece passare per alcolizzato e inaffidabile il testimone di Rubin Per la gente bianca che stava a guardare lui era un fannullone rivoluzionario E per la gente nera lui era solo un pazzo negro Nessuno dubitò che fu lui a premere il grilletto Sebbene loro non avessero trovato l'arma L'accusa disse che fu lui a compiere l'atto E la giuria composta di bianchi fu d'accordo

Rubin Carter fu ingiustamente condannato L'accusa fu omicidio, indovina chi ha testimoniato? Bello e Bradley ed entrambi mentirono E i giornali, tutti ci mangiarono sopra Come può la vita di un uomo Essere nelle mani di qualche pazzo? Vederlo ovviamente incastrato Non può aiutarlo ma mi fa vergognare di vivere in un paese Dove la giustizia è un gioco.


In carcere Rubin Carter prepara ricorsi e sembra esserci una speranza quando i due malavitosi accusatori ritrattano le accuse, ma niente da fare. Inizia a studiare un po’ di tutto, storia, letteratura,filosofia e scrive. Scrive la sua biografia che esce nel 1974. Il suo caso diventa sempre più conosciuto e iniziano a interessarsi a lui diverse personalità come Muhammad Alì e Bob Dylan, che scrive per lui Hurricane uno dei brani più memorabili dell’album Desirè, pubblicato nel gennaio del 1976 e uscito anche come singolo di grande successo.


Ora tutti i criminali coi loro cappotti e le loro cravatte Sono liberi di bere Martini e guardare l'alba Mentre Rubin siede come Budda in una piccola cella Un innocente in una camera infernale Questa è la storia di Hurricane Ma non sarà finita finché non gli ridaranno il suo nome E il tempo perso Messo in una prigione, ma un tempo lui avrebbe potuto essere Il campione del mondo.


“Lui aveva sempre sostenuto la propria innocenza, senza la minima esitazione. Lo Stato aveva chiesto la pena capitale, la giuria gli aveva inflitto invece tre ergastoli. La condanna sarebbe stata revocata nel 1976, ma più avanti, quello stesso anno, Carter fu nuovamente giudicato colpevole per lo stesso crimine e gli furono riassegnati i tre ergastoli. Così si legge nel bellissimo libro scritto da James S. Hirsh Hurricane, Il miracoloso viaggio di Rubin Carter, frutto di una conversazione con il pugile, nel 1994.



L’attenzione sull’ingiustizia subita dal pugile e dal suo amico cresce allora esponenzialmente anche grazie all’attività che svolge in suo favore George Lois, appassionato al caso e genio della comunicazione. E a questo punto che avviene una svolta. Continuiamo a seguire il libro di Hirsh (con tutto il corsivo virgolettato).


Rubin Carter è detenuto “ nella prigione di Stato di Trenton, Casa della morte era il nome con cui era nota a tutti la casamatta di cemento e mattoni che ospitava, in celle piccolissime, i condannati alla pena capitale; poco distante, addossata a un muro, c’era una sedia elettrica. La Casa della morte fu smantellata nel 1972, quando la Corte suprema degli Stati Uniti mise fuori legge la pena di morte per scarica elettrica in quanto castigo di crudeltà inaudita. La sedia elettrica, dopo aver bruciato la vita di centosessanta persone, fu di colpo obsoleta. I dirigenti della prigione inventarono così una nuova mansione per quel locale: sarebbe diventato il Centro visitatori. Malgrado il macabro passato, il Centro visitatori fu apprezzatissimo da quasi tutti i carcerati. Era la prima volta che la prigione di Stato di Trenton, una struttura di massima sicurezza, permetteva ai prigionieri il contatto fisico con i visitatori. Adesso i detenuti potevano toccare mogli, figli, amici. Le sbarre di metallo furono rimosse da più di venti celle del braccio della morte, vicino alla sedia elettrica ormai in disuso, di cui però rimasero i sette interruttori. Le stanze, pur non essendo esattamente confortevoli alcove, diventarono la sede non ufficiale per gli incontri coniugali. Quando i detenuti desideravano un po’ di privacy, facevano in modo di riservarsi le celle più lontane dalle guardie: una situazione che, come raccontano alcuni veterani, generò i cosiddetti «bambini della Casa della morte». Ma a Rubin Carter tutto questo non importava. Rifiutava praticamente qualunque cosa la prigione gli offrisse, comprese le visite nella novella Casa della morte. Trovava poi ripugnante l’idea di condividere i momenti intimi con lo spirito di altri centosessanta uomini, alcuni dei quali di sua conoscenza. Secondo Carter, convertire quella specie di mattatoio in un centro visitatori equivaleva a trasformare Auschwitz o Buchenwald in un campeggio per ragazzi. Non era che un’altra maniera in cui lo Stato umiliava i carcerati, un’esibizione di disprezzo per la nuova legge che aveva staccato la spina alla sua sedia. Carter sapeva benissimo che una delle vittime della sedia avrebbe potuto essere lui.”



“Sul finire del 1980, erano quasi quattro anni che Carter non riceveva visite. Dopo la seconda sentenza, del febbraio 1977, non aveva più visto né suo figlio né sua figlia, né la madre, le quattro sorelle o i due fratelli. Aveva allontanato anche quasi tutti gli amici. Aveva divorziato dalla moglie. Gli avvocati li incontrava in un’altra parte della prigione. Ma quel giorno, l’ultima domenica dell’anno, Carter aveva un visitatore, giunto a seguito di un’insolita lettera ricevuta tre mesi prima. In quanto ex pugile di cartello, noto in tutto il paese e anche all’estero, Carter riceveva ogni anno centinaia di lettere, ma accadeva molto di rado che rispondesse. Anzi, non le apriva nemmeno, lasciava che si accumulassero nella cella. Con il mondo esterno, Carter aveva chiuso. Poi, un giorno di settembre, arrivò una lettera, il suo nome e l’indirizzo della prigione in stampatello sulla busta. Carter non ha mai saputo spiegare perché avesse aperto proprio quella, se non dicendo che la busta emetteva delle «vibrazioni». La lettera, datata 20 settembre 1980, era di un ragazzo nero dei ghetti di Brooklyn che, cosa piuttosto strana, abitava a Toronto con un gruppo di canadesi. Questo diciassettenne, Lesra Martin, scriveva di aver letto La sedicesima ripresa, l’autobiografia che Carter aveva scritto in prigione nel 1974, e che questa lo aveva aiutato a capire meglio il fratello maggiore, incarcerato a nord dello Stato di New York. La lettera di Lesra si chiudeva così: Mentre leggevo il tuo libro continuavo a chiedermi cosa fosse peggio, morire o sopportare lo schifo che è toccato a te. Ma ora, quando ci penso, capisco che se tu fossi morto non avresti potuto dare quello che hai dato con il tuo libro.”


Costruita nel 1836 da John Haviland, famoso architetto inglese, la prigione è una fortezza monolitica e incombente. Impiegando volumi trapezoidali e un gigantismo severo, Haviland intese evocare l’imponenza di un tempio egizio. Nei muri di pietra calcarea rosa furono intagliati degli scarabei, il simbolo dell’anima nell’antico Egitto.


Scopo della prigione era il controllo completo sugli internati, ma Carter non perdeva occasione per sfidare l’istituzione. Non portava l’uniforme, non mangiava nel refettorio, non svolgeva i lavori assegnati, non partecipava a nessuna delle attività organizzate. Rifiutava di incontrare gli psichiatri del carcere, di presentarsi alle udienze per la libertà vigilata, di portare con sé la targhetta identificativa da prigioniero. La ragione era semplice: lui era innocente; dunque, non si sarebbe fatto trattare come un criminale. La sua ribellione gli aveva procurato più di un soggiorno in un sotterraneo noto come «il buco», usato per tenere i prigionieri in isolamento. Una volta fu anche spedito in un ospedale psichiatrico statale, dove venivano rinchiusi i pazzi criminali e altri soggetti incorreggibili. Ma Carter aveva l’istinto di sopravvivenza di un predatore, e alla fine gli fu consentito di starsene tranquillo nella sua cella del quarto livello. La battaglia in tribunale per la libertà andava avanti, ma a quel punto si era già immerso nei libri di filosofia, storia, metafisica e religione. In cerca di un significato da dare alla propria vita, aveva trasformato la cella in «un laboratorio innaturale dello spirito umano». Studiava, scriveva, istruiva i compagni sulla necessità di guardare dentro sé stessi per trovare risposte al mondo esterno.”


Lesra insiste per incontrarlo e va in carcere

L’incontro con il ragazzo afroamericano di Brooklyn, con un fratello in galera, proveniente dal Canada dove vive in una specie di comune di bianchi segna la svolta. “Fu questo incontro a segnare il riemergere di Carter dal guscio in cui si era confinato. Avrebbe sempre mantenuto un rapporto speciale con Lesra, ma avrebbe sviluppato altri legami, molto più importanti, con la comune canadese, i cui membri si sarebbero rivelati un sostegno essenziale nel viaggio di Carter attraverso i vari tribunali federali.”


Questo gruppo, dopo essersi trasferito negli Stati Uniti, lavorò sodo e aiutò Carter e i suoi avvocati a promuovere una petizione alla Corte Federale. Tre anni dopo gli avvocati di Carter promossero una petizione per appellarsi alla Corte Federale. Ebbero successo: nel 1985 il giudice della Corte Federale Haddon Lee Sarokin sentenziò che Carter e Artis non avevano avuto un processo equo, affermando che l'accusa era "basata su motivazioni razziali". Dopo diciannove anni finalmente erano liberi.


Lesra il giorno del colloquio, scosso per l’ambiente, la sorveglianza, la violenza che traspirava il luogo gli aveva chiesto “Come hai fatto a sopravvivere qui dentro?” e Rubin Carter gli aveva risposto: “Non riconosco l’esistenza della prigione. Per me, non esiste”.


I versi in corsivo sono tratti dal testo di Hurricane di Bob Dylan il virgolettato in corsivo è tratto dal libro di James S. Hirsh: Hurricane. Il miracoloso viaggio di Rubin Carter – SSthand2nd 2010

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