top of page

GIORNO PER GIORNO 16 giugno - Marat-Sade, teatro e rivoluzione

16 giugno 1966

 

Marat-Sade, teatro e rivoluzione



Il più prestigioso premio annuale per il teatro, il Tony Award va al Marat-Sade di Peter Weiss, uno dei testi e delle scene più innovativi e influenti di tutti i tempi.


Jean Paul Marat sta immerso nella vasca che permette di alleviare i dolori per la malattia che gli corrode la pelle, intorno i fogli che gli servono per i suoi infuocati articoli su l’Ami du peuple. È un tempo immaginario, quindici anni dopo la coltellata mortale che ha posto fine alla sua pratica rivoluzionaria, che lo colloca a riflettere sugli esiti della rivoluzione iniziata il 14 luglio del 1789 con la presa della Bastiglia: «Credo nella Rivoluzione! Abbiamo scacciato i vecchi tiranni e ora abbiamo nuovi tiranni. Ma ancora credo nella Rivoluzione. Il bottino è stato sequestrato da imprenditori, intermediari, finanzieri, venditori, operatori, manipolatori. Ma la Rivoluzione deve continuare».


«Io stesso penso che l'arte dovrebbe essere così forte da cambiare la vita, altrimenti è un fallimento», aveva dichiarato Peter Weiss sottolineando l'assoluta necessità di scrivere «con l'obiettivo di cercare di influenzare o cambiare la società».


È una scena dentro la scena, uno spettacolo dentro lo spettacolo, quadri dentro quadri, parole che fungono da immagini, immagini che sottolineano parole, personaggi storici che si proiettano fuori dal loro tempo e che si propongono come immagini. C’è un dentro-fuori, uno spettacolare gioco a incastro, un perdersi in un racconto basato su scatole cinesi in cui lo spettatore assume anche senza volerlo sia le posizioni del marchese De Sade, sottolineate dalla postura dell’attore, che quelle di Marat, la cui posizione dentro la vasca esprime l’impotenza di movimento ma non la rinuncia. Ma se non bastasse a complicare il tutto, lo spettatore si trova a immedesimarsi soprattutto in quelli che nella scena dovrebbero essere i comprimari, il coro: i pazienti di un ospedale psichiatrico indocili a interpretare le parti assegnate.


È il 13 luglio del 1808, lo stesso giorno dell’assassinio di Marat, avvenuto nel 1793, siamo nello storico manicomio di Charenton, luogo dove realmente fu internato il marchese De Sade dal 1801 al 1814. Coulmier, direttore dell’ospedale e ossequioso devoto a Napoleone, ha affidato a Sade l’incarico di allestire uno spettacolo da far interpretare interamente ai malati e riportare il tempo al momento più alto della rivoluzione. Lui stesso con la moglie, dottori e infermieri saranno i supervisori dell’opera in scena. Non prevedendo che la scena ingloberà anche loro.


«Noi spiriti moderni e illuminati, invece di impiegare terrore e minacce sui ricoverati ci occupiamo di alleviare il tedio della reclusione per mezzo dell’arte, della cultura, assecondando i sacrosanti principi della Dichiarazione dei Diritti dell’Individuo», dice, rivolto al pubblico, il direttore pensando di fare una scelta avveduta nel dare l’incarico a De Sade. Il Marchese aveva trasposto nei suoi estremi scritti i più pericolosi vizi dell’aristocrazia, la fame di dominio e di possesso, e facendolo aveva usato uno sguardo da esterno ma non sottraendo neanche sé stesso dal novero dei responsabili. Anche in questo caso come autore della pièce doveva distaccarsene, ma come attore e conduttore del gioco non poteva sottrarsi nell’interpretazione di sé stesso, della maschera che gli si attribuiva e dall’istinto di ribellarsi alla sua condizione di simbolo e più brutalmente di internato.


Il tempo deve riavviarsi all’indietro e ritornare al 13 luglio del 1793 e replica dopo replica Marat deve aspettare la pugnalata di Charlotte Conday, che a nome di tutti i Girondini, i rappresentanti dei proprietari terrieri e della borghesia padronale, crede di poter impedire il corso della rivoluzione e soprattutto la politica di espropri e prezzi calmierati portata avanti dalla Comune insurrezionale di Parigi.


Il tempo deve ritornare al 1808 per fare un conto bilanciato di cosa ne è rimasto di tutto quel movimento, della rivoluzione. Il direttore ha esaminato i testi e tutti devono attenersi. Ma se si reputano matti gli attori, ci si può aspettare qualche imprevisto…


Nello spettacolo di Weiss, il Marchese De Sade è il lucido, disincantato, rappresentante della ribellione individuale, nemico delle convenzioni e delle convinzioni, spericolato e prudente nell’affrontare la vita, lontano dagli impegni ma insofferente alle costrizioni del potere, l’aristocrazia, i proprietari, i carcerieri e il direttore. Ricorda a sé stesso e al pubblico di pazienti e infermieri gli anni della detenzione alla Bastiglia e procede in dialoghi serrati con Marat.


E ancora si ritorna indietro all’anno terzo della Rivoluzione con il nemico prussiano alle porte, con i nobili fuoriusciti alleati con le potenze straniere che hanno messo la Francia sotto assedio. C’è una massa di proletariato urbano che preme, che chiede in cambio dell’arruolamento nell’esercito di volontari la fine degli speculatori, di quelli che imboscano la farina per alimentare il mercato nero, di quelli che non vogliono mollare i loro privilegi. Ci sono contadini che reclamano ancora la fine reale della proprietà feudale e ci sono contadini in Vandea che spalleggiano i signori e i vecchi padroni. In mezzo quello che si insinua in ogni strato della popolazione, insoddisfazione e voglia di andare per le spicce. Lo scontro con il nemico interno e con quello esterno. Ma fuori dal copione c’è lo spazio perché ognuno faccia i conti con quel tempo passato.


De Sade dichiara: «Per me, l'unica realtà è l'immaginazione; il mondo dentro di me. La Rivoluzione non mi interessa più», mentre i pazienti, a nome di tutti gli sfruttati invocano con cadenza musicale cantilenante: «Marat, siamo poveri/E i poveri restano poveri/Marat, non farci più aspettare/Vogliamo i nostri diritti, e non ci interessa come/Vogliamo una rivoluzione, adesso!».


Peter Weiss, tedesco di origine ebrea, fuggito con la famiglia dopo la salita al potere di Hitler, stabilitosi in Cecoslovacchia e poi in Svezia prima ancora di diventare drammaturgo era stato illustratore, romanziere, saggista. Era stato influenzato dal Surrealismo e dalla pittura di Bruegel e Bosh, dalle letture di Kafka e delle opere di Antonin Artaud, determinante con le sue teorie espresse ne “Il teatro e il suo doppio” sul teatro della crudeltà. Un teatro che uscisse dall’idea di spettacolo, di separazione tra attori e spettatori.


Antonin Artaud aveva anche interpretato nel film Napoléon del regista francese Abel Gance il ruolo di Marat in una rappresentazione astorica, giovane affascinante, carismatico e bellissimo per declinare in un essere abbruttito, la faccia sfatta, sdentato e visibilmente instabile mentalmente, sull’orlo dell’autodissoluzione e del suicidio. Peter Weiss ne aveva parlato in un suo saggio cinematografico dove rifletteva sulle modalità di rappresentazione del film in Cinemascope e il rapporto con le rappresentazioni pittoriche e teatrali, mentre l’approccio con Sade aveva sicuramente qualcosa a che fare con l’estetica del Marchese, lo sguardo distaccato dal Male, il linguaggio come immagine e la realizzazione del racconto dentro il racconto.


La presenza contrapposta di due simboli dell’uomo in rivolta tirati fuori dal loro contesto e dal loro tempo e resi diversamente alienati e ostaggi di un’istituzione totale e deprivante, concretizzavano la radicalizzazione politica e culturale di Weiss sostenitore delle iniziative per il disarmo nucleare e fortemente oppositore dell’aggressione americana in Vietnam.


Nel 1963 inizia a lavorare all’idea del Marat-Sade concludendo l’anno successivo la stesura con ben quattro variazioni, pensate in rapporto alla musica, alle luci, le proiezioni. Rappresentata per la prima volta allo Schiller-Theater di Berlino il 29 aprile 1964, con la regia di K. Swinarski e nello stesso anno a Londra con la regia di Peter Brook, nel 1966 arriva la consacrazione con il Tony Award che premia l’opera come miglior spettacolo, Peter Brook come miglior regista, Patrick Magee per la migliore interpretazione di un attore protagonista e Gunilla Palmstierna, moglie di Weiss per i suoi costumi.


La messa in scena di Peter Brook, prima a teatro e poi per il cinema, esalta la potenza del testo con un allestimento che propone le tecniche di Artaud, l’esplosiva combinazione di spettacolo rigoroso, esaltato dalla musica dal vivo e di disciplina introdotta con i versi. Ogni scena ripete l’irregolarità della figura centrale di Sade, degli orrori della sua immaginazione e della sua dissolutezza che diventa risolutezza nell’opposizione alle sicurezze di Marat.


Ogni paziente del manicomio di Charenton crede fermamente di essere il personaggio che gli è stato assegnato, ma lo vive guidato dalla propria specifica patologia. Charlotte Corday, in teatro e nel film la splendida Glenda Jackson, è affetta da narcolessia e si muove come un fantasma aspettando che sia proprio il Marchese De Sade a porgerle il pugnale assassino, mimando con lui un passo di danza che prelude alle prove del gesto, della fluidità del movimento della mano armata. Il Coro l’ha accolta cantando: «gli uccelli di Parigi cantano dolci richiami, Charlotte cammina per stretti vicoli di pietra, tra profumi rari, Charlotte annusa odore di sangue versato, sente il canto della ghigliottina». I malati si muovono caoticamente, accompagnano coi gesti i nobili condannati alla ghigliottina mentre lei senza rivolgersi a nessuno canta: «Che città è questa, dove il sole appena attraversa la bruma, che non è nebbia né pioggia ma un vapore caldo e spesso come si sprigiona nei mattatoi. Cos’è questa palla con cui stanno giocando, una testa umana? Che città è questa dove la carne viene trascinata nuda al suolo?». E Marat interviene con foga da tribuno rivoluzionario: «Cosa sono questi pochi immolati di fronte ai sacrifici che avete fatto per mantenerli in vita? Cosa sono questi saccheggi di fronte alla vostra morte e al vostro totale sfruttamento? Se fuggite davanti al nemico con il quale loro cospirano, la vostra sconfitta sarà la loro vittoria, e allora non un muscolo si muoverà sul volto di costoro oggi sconvolto dall’orrore e dall’indignazione».


Sade pare approvare la violenza liberatrice ma poi se ne discosta: «Tutto coperto di lesioni giaci in quella vasca che è diventata il tuo mondo, e ancora credi che la giustizia sia realizzabile?». Tornano le visioni del Marchese, un doppio passato, un doppio ruolo: «Ma poi vidi, quando sedevo io stesso in tribunale, giudice e non più reo, che non ero capace di dare gli imputati in mano al boia; mi sono adoperato per assolverli o farli scampare in qualche modo. Vidi realizzate le mie stesse profezie, come le donne arrivavano di corsa stringendo nelle mani sanguinanti gli strumenti recisi del sesso maschile». Si denuda e si fa fustigare da Charlotte Corday mentre ricorda la sua detenzione alla Bastiglia: «Mi apparivano rappresentazioni mostruose di una classe agonizzante, il cui genio procurava a se stessa lo spettacolo dei propri eccessi. Ricostruii fino al minimo dettaglio il meccanismo della sua violenza. In una società di criminali, disseppellivo il crimine dal fondo di me stesso per esplorarlo, per esplorare il tempo in cui vivevo».

I malati sono sempre più eccitati e ognuno inizia ad uscire dalla propria parte. Il direttore si rivolge

al pubblico come per scusarsi, si rivolge a Sade per ammonirlo inutilmente: «Non puoi proprio chiamarla educazione. Non sta migliorando per niente i miei pazienti. Stanno diventando tutti troppo eccitati. Dopotutto, abbiamo invitato il pubblico qui per mostrare loro che i nostri pazienti non sono tutti lebbrosi sociali».


I pazienti urlano. «Chi controlla i mercati? Chi chiude i granai? Chi ha preso il bottino dai palazzi? Chi tiene duro sulle proprietà che stavano per essere divise tra i poveri?». E altri continuano: «Chi ci tiene prigionieri? Chi ci rinchiude? Siamo tutti normali e vogliamo la nostra libertà!».Ormai tutto è fuori controllo, gli internati sono in rivolta. Una rivoluzione, dentro una rivoluzione, dentro una rappresentazione.


E noi meditiamo sulle parole di Marat: «Non fatevi ingannare quando la nostra Rivoluzione è stata finalmente soppressa e vi dicono che ora le cose vanno meglio. Anche se non c'è povertà da vedere, perché la povertà è stata nascosta. Anche se hai più salari e puoi permetterti di comprare più di questi beni nuovi e inutili. E anche se ti sembrava di non aver mai avuto così tanto, questo è solo lo slogan di chi ha molto più di te. Non farti ingannare quando ti danno una pacca paterna sulla spalla e ti dicono che non c'è più disuguaglianza di cui vale la pena parlare, non c'è più motivo di litigare. Se ci credi, saranno completamente al comando nelle loro case splendenti e nelle banche di granito, da cui derubano le persone del mondo con il pretesto di portare loro la libertà. Attento, perché non appena gli piacerà, ti manderanno a proteggere la loro ricchezza, in guerra - le cui armi, sviluppate rapidamente da scienziati servili, diventeranno sempre più micidiali finché potranno, con il tocco di un dito, fare a pezzi un milione di voi».

bottom of page