GIORNO PER GIORNO 15 maggio - Chiamata contro l'apatia
- Andrea Colombu
- 15 mag 2021
- Tempo di lettura: 7 min
15 maggio 2015
Una chiamata alle armi contro l’apatia

Full Communism: I Downtown boys, la band latinx, queer punk, antisessista e anticapitalista inizia il tour agit-prop nella propria città, a Providence, Rhode Island per promuovere il nuovo esplosivo album.

«Spesso cadiamo in questa trappola di dividere la cultura dalla vita di tutti i giorni, come se la cultura fosse qualcosa che si ferma alla porta della galleria o al palcoscenico. Questo è ciò che il capitalismo vuole che sia la cultura: un'esperienza nettamente separata che si consuma e poi si va avanti. L'arte o la musica veramente rivoluzionaria va oltre il luogo in cui dovrebbe essere confinata e ti ispira ad agire sul lavoro, contro le persone che ti opprimono e così via. Non so se riusciremo a raggiungere questo obiettivo, ma puntiamo a questo tipo di cultura totale». (Joey DeFrancesco)
Una marchin’ band, fiati e percussioni, accompagna un giovane dipendente del Renaissance Hotel al posto di lavoro per presentare platealmente le sue dimissioni. Il video, serissimo ed esilarante, segue tutta la scena. Non è fiction, ma fa parte di una precisa azione politica e di una prassi che va diffondendosi per denunciare il supersfruttamento nel lavoro e in particolare nei servizi. Per un attimo si vede esultare una ragazza latinx, anche lei impiegata nell’hotel, mentre il ragazzo e la banda di ottoni si allontanano festosi. Il video fa il giro del mondo e ha un milione di visualizzazioni. Lui si chiama Joey DeFrancesco, studente lavoratore, queer di origine italiana e lei è Victoria Ruiz, messico-americana di El Paso.
«La reception era dove mettevano tutti i bianchi più presentabili. Ma dietro la reception nascondevano tutti gli altri. Nel manuale delle pulizie dicono ai lavoratori, che sono donne dominicane al 95%, che dovrebbero essere invisibili. Non vere [persone], ma qualche fantasma magico che pulisce dopo che ci si sposta. L'hotel è un piccolo microcosmo di come funziona la società più ampia sotto il capitalismo», dice DeFrancesco.
È il 2011 e Joey e Victoria decidono di affiancare attivismo politico sociale con l’espressione musicale e mettono su due band, il sestetto multietnico hardcore Downtown Boys e i caotic-art cumbia Malportado kids, anche se pure queste etichette di genere stanno comunque assai strette.

Come attivisti tutti gli elementi delle due band sono molto legati alla storia delle lotte della città e alla comunità, le donne e LGBTQ, i lavoratori precari, i migranti, i latinx. Organizzano i lavoratori e si occupano di attività culturali e artistiche di base. Come musicisti, cresciuti nell’auto-organizzazione del DIY, Do It Yourself, nei locali della scena punk di Providence, cercano di espandere il proprio messaggio fuori dalla nicchia amicale della città. Stanno sul palco con la stessa disinvoltura di quando irrompono in una galleria d’arte o quando utilizzano i media ufficiali, quelli musicali come i giornali più pro-establishment per le loro denunce. «La nostra musica è un'opportunità per affrontare la radice dei problemi tra i corpi e le cose che le persone sperimentano ogni giorno», dice Victoria Ruiz. «In Downtown Boys canto molto di polizia, confini e sorveglianza, ma in Malportado Kids riesco ad essere più personale. Entro nei poliziotti che vivono nei corpi di coloro che amiamo. Non i poliziotti con pistole e distintivi».
«Io e Victoria ci siamo incontrati mentre lavoravamo al Renaissance Providence Hotel - che attualmente è sottoposto a un cosiddetto boicottaggio dei lavoratori - e siamo stati profondamente coinvolti nell'organizzazione dei lavoratori lì. Siamo entrambi ancora molto coinvolti nelle campagne del Renaissance e in altri hotel a Providence. Emmett [Fitzgerald, sax tenore] è stato profondamente coinvolto nelle campagne per la giustizia carceraria e fa giornalismo su questioni di giustizia ambientale. Dan [Schleifer, basso] e Norlan [Olivo, batteria] hanno lavorato per un po’ con New Urban Arts, un incredibile programma di arte e musica dopo scuola per i giovani di Providence. Agiamo tutti in base a ciò di cui parliamo nella nostra musica».

Lavorando in hotel, avevano solo due frasi con cui rivolgersi ai clienti “Desidera qualcosa? È soddisfatto?”, da ripetere come un mantra atonale e anonimo.
La varietà di espressioni del loro agire politico si riflette anche nella musica, nelle fanzine, nell’organizzazione culturale che promuovono. All’attento, bianco, assorto e adulto pubblico al Jewish Museum di New York City Victoria Ruiz canta coi Malportado Kids “MI CONCHA NO ES BASTANTE BLANCA PARA T?, la mia figa non è abbastanza bianca per te?” mentre alle sue spalle scorrono le immagini iconiche di Selena, l’affascinante storica cantante messicana e di Malcolm X.
Anche in versione punk, spicca la presenza dei fiati, sottolineando l’amore per il jazz di Sun Ra, Art Ensemble of Chicago, John Zorn, per l’energia e la carica politica. «Il punk come stile di vita estetico e individualistico non significa nulla», spiega DeFrancesco. «Il punk come etica del collettivismo, anti-oppressione e azione può e deve permeare tutto, dal palcoscenico al picchetto, ma dobbiamo fare in modo che sia così». Cioè combattere praticamente e quotidianamente il sistema dal di dentro, attaccare le idee fossilizzate, i comportamenti omologati, gli stereotipi di genere, l’oppressione sessista, come scrivono sul retrocopertina dell’album "Il complesso carcerario-industriale, razzismo, queerfobia, capitalismo, fascismo, noia e tutte le cose che le persone usano per cercare di chiudere le nostre menti, occhi e cuori". E, a volte, omofobia e discriminazione sono nella stessa comunità di cui si fa parte: «Il punk deve guardare a se stesso e rendersi conto che non sempre sta facendo il meglio che può nell'accogliere le persone e aprire gli spazi e assicurarsi che coinvolgano la comunità a cui 'tengono'», dice il batterista Norlan Olivo, « In teoria, se sei un fai-da-te o un punk, non dovresti essere razzista o omofobo o qualcosa di simile, ma non è così. Le persone più razziste, la maggior parte delle persone con cui ho avuto a che fare in termini di dinamiche di potere, le persone che mi hanno feticizzato di più, sono i punk bianchi».
Victoria Ruiz spiega: «Nessuno di noi guadagna abbastanza soldi per sopravvivere con la musica. Lo facciamo tutti perché ci crediamo e perché sentiamo l'urgenza di farlo. Cercare di ridistribuire le risorse nell'industria musicale è davvero, davvero, dolorosamente difficile». I colossi come Spotify, Youtube, Aplle, hanno distrutto le potenzialità delle piccole e dinamiche etichette indie e la band trova comunque il modo per attaccare i più importanti festival Coachella e SxSW, il primo per il sostegno finanziario del proprietario Philip Anschutz ai gruppi anti-LGBT e di estrema destra, e il secondo per la terminologia contrattuale discriminatoria.

«Ci sono molti che ce l’hanno con noi là fuori, e penso di sentirne probabilmente il peso maggiore. Minacciare uno status quo capitalista, bianco e patriarcale è doppiamente duro se sei una donna di colore», racconta Victoria Ruiz. Eppure nel giro di pochi anni i Downtown boys sono passati dall’autoproduzione a un’etichetta indie molto quotata come Don Giovanni Record e poi la SubPop di Seattle. Da prima dell’uscita di Full Communism, i giornali hanno fatto a gara per corteggiarli. Rolling Stone li ha definiti “La band più eccitante d’America”, le lodi arrivano da Spin, New Yorker, Pitchfork. Talvolta domande che rivolgono alla band risentono degli stessi stereotipi che loro denunciano e in loro si vuole trovare il prossimo feticcio da imitare, la coerenza totale, l’esempio assoluto. La cultura progressista è sempre pericolosa con il suo schematismo. Cosa ci sarebbe di più bello di una band di giovani, lavoratori precari, che ovviamente non riescono a sostenersi con la musica, con un’organizzazione orizzontale, multietnici, con una frontwoman femminista e un frontman che si presenta con solo trucco e rossetto o come drag in versione solista col nome “Neve”?
«Per noi, si tratta davvero di usare i media come un altro posto al tavolo quando pensiamo a come usare la cultura e l'arte per decolonizzare le nostre menti imperializzate», dichiara Victoria Ruiz. «E penso che al di fuori della band cerchiamo costantemente anche di districare questo, di sbrogliarlo e smantellarlo, quindi c'è quella contraddizione di dover combattere le strutture che hanno creato il capitalismo e il razzismo contemporaneamente dover sopravvivere, esistere e navigare al loro interno. Isolare noi stessi, penso, restringerebbe ciò che stiamo cercando di fare. Restringerebbe la nostra arte e il nostro messaggio, restringerebbe le nostre capacità. Penso che sia per questo che non ci isoliamo, separiamo o alieniamo noi stessi Non possiamo scegliere di non essere una donna di colore. Non possiamo scegliere di non essere queer. Non possiamo scegliere di non cedere ai binari di genere. Allora perché dovremmo scegliere di farlo con la nostra band?».
Il titolo che hanno scelto per il loro album con cui iniziano il tour il 15 maggio 2015 è assolutamente coerente e assolutamente provocatorio. “Full Communism”, ricorda la paura, durante la Guerra Fredda e la contrapposizione tra le superpotenze USA e URSS, fa tornare in mente la caccia alle streghe e le liste nere compilate dalla commissione MC Carthy contro i sospettati di idee di sinistra tra gli attori e i registi di Hollywood, dell’editoria e della televisione. Quindi perché non rimettere in piedi un urgente bisogno di utopia e utilizzare un nome che costringe a parlare e cercare di farsi capire?

Come dice Joey DeFrancesco: «Vogliamo sicuramente qualcosa che arrufferà alcune piume in un certo senso. Come ha detto Victoria, vogliamo qualcosa pieno di speranza perché penso che, anche nella comunità degli attivisti in questo momento, ci sia molta oscurità sul momento presente. Vogliamo qualcosa che trasmetta un senso di speranza per un futuro utopico, anche se è impossibile realizzarlo pienamente nelle nostre vite. Quell'idea utopica in mente è importante, ma la vera parola "utopia" è diventata priva di significato, quindi abbiamo qualcosa che è un po’ più incisivo di così».
Dall’album e tour del 2015 qualcosa è cambiato per i Downtown Boys. In sala di registrazione per il nuovo album ci son stati per cinque giorni, due in più della volta precedente. A loro fianco ora c’è, come produttore Guy Picciotto, chitarra e voce con Ian McCay nei Fugazi, come dire, un passaggio di consegne tra la più bella band politica e un’altra. Per il resto, sono solo aumentati gli impegni e le collaborazioni degli elementi della band. Fanzine, blog, coordinamenti tra musicisti, concerti benefit e ancora e ancora…
Downtown Boys - Wave Of History (Official Music Video)
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