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GIORNO PER GIORNO 15 luglio - Sogno e rituale

15 luglio 1959

 

Il Living Theatre presenta la sua nuova rappresentazione: The Connection



Sera d’estate, sulla West 14th Street nel Greenwich Village, il Living Theatre inaugura la produzione di una nuova commedia, The Connection, di Jack Gelber. Nel piccolo teatro il pubblico si trova vicino a un gruppo di persone dall’aspetto stanco, distante o disperato.


Sul palco un’orchestra jazz non aspetta nessun segnale, nessun accadimento per iniziare a suonare, per smettere, per riprendere. Non commentano niente, non aspettano che una storia si dispieghi davanti a un pubblico attorniato da falsi registi che filmano, guardano, cercano di cogliere espressioni e situazioni. Le telecamere ronzano in giro e alcuni ripetono “È così che stanno le cose. È così che va." Un produttore rivendica a voce alta di essere artefice dell’azione teatrale mentre un altro gli si contrappone con la medesima asserzione. La cappa di fumo è opprimente ma non ci si fa caso neanche quando si mischia all’incenso e ad altri profumi orientali. Il gruppo di persone dall’aspetto stanco aspetta con speranza e disperazione un pusher ritardatario, la loro connessione.


Siamo nel chiuso di un appartamento e non arriva nessuno. Siamo in un teatro, altrimenti che cosa ci starebbe a fare un’orchestra jazz che inizia a concordare i propri interventi sul movimento del gruppo di tossicodipendenti?


Difficile spiegare a più di sessanta anni di distanza l’impatto che l’allestimento aveva avuto sul pubblico, capire l’eco e le valutazioni contraddittorie della stampa. Il testo di Geiber, i piani diversi di lettura che propone, enfatizzati dalla messa in scena dell’avanguardismo del Living,derivato dalla lezione di Antonin Artaud, fanno sbandare, lasciano lo spettatore preso da emozioni diverse, contrastanti.


Sam è stato licenziato, da un po’ senza lavoro e senza prospettive, bilancia una serie di invettive per chiunque non voglia tapparsi le orecchie: "Le persone che si preoccupano così tanto per il prossimo dollaro", dice, "il prossimo cappotto nuovo, i dipendenti dalla clorofilla, i dipendenti dall'aspirina, i dipendenti dalle vitamine, quelle persone sono dipendenti peggio di me. Peggio di me. Gente bella che agganciata."


La filosofia del Living Theatre, la sua ragione d’essere si trovava nelle parole di Julian Beck, regista e animatore della compagnia assieme a Judith Malina: fare del teatro “un luogo di esperienze intense, metà sogno, e metà rituale, nel quale lo spettatore si possa avvicinare a una sorta di visione della comprensione di se stesso che superi il livello della coscienza per arrivare all’inconscio.”


Con The Connection il Living Theatre offre al pubblico la possibilità di interrogarsi su più livelli di realtà, senza poterne privilegiare o sceglierne una sola, senza distinguerne i confini. Gli attori che interpretano la parte dei tossici, recitano la parte, invocando una dose come ricompensa della loro recitazione, del voyerismo degli spettatori. L’orchestra jazz improvvisa per loro o per il pubblico, forse per entrambi. E’ una prospettiva di salvezza. Oppure no. Gli inutili oggetti di scena, le lunghe pause, le riflessioni forzate sviano l’attenzione sulla sostanza dell’operazione: riportare la cruda realtà alla sua crudele normalità, quella con cui non si vuole fare i conti. Storie che riguardano altri, gente che fortunatamente non siamo noi, gente che sta nella sua merda e che non ci riguarda, fino al momento in cui ci si accorge che in quella merda, o in una qualunque altra situazione simile ci possiamo stare anche noi. Gli inutili oggetti di scena ci forniscono la scusa per non pensare alla realtà?


A cinquanta anni di distanza Judith Malina aveva provato a riproporre il testo con un nuovo adattamento, mantenendo l’idea di spaesamento, di dubbio. "La sua cruda immediatezza e la demolizione dei normali confini tra pubblico e cast hanno influenzato generazioni di produzioni teatrali ed è nostro desiderio reintrodurre questo lavoro seminale a una nuova generazione di attori e musicisti jazz e, naturalmente, al nostro pubblico", spiega la nota del Living, " The Connection è un'opera teatrale sulla condizione umana. Il pubblico incontra un gruppo di drogati e un gruppo di musicisti jazz che aspettano in un loft che 'Cowboy' porti loro una dose, mentre vengono filmati per un film sulle loro vite. È l'ingresso in un mondo complesso, che rispecchia molti aspetti della condizione umana dalla bruciante disperazione del tossicodipendente alla gloriosa redenzione della musica jazz”.


La rappresentazione, era stata un’epocale dimostrazione della validità e delle possibilità che anche un testo crudo e duro potesse ottenere il favore del pubblico, come racconta l’attore Martin Sheen, lanciato con quella pièce teatrale portata in replica settecento volte.


Quattro anni dopo la prima in teatro, una regista dell’avanguardia cinematografica americana e del cinema indipendente, Shirley Clarke che riprende le parole con cui Judith Malina aveva presentato The Connection: “non è uno spettacolo sulla droga, ma sul senso di angoscia e di dipendenza che appartiene a tutti” e le fa proprie rivisitandole: “Per anni mi sono sentita un’emarginata, perciò mi identificavo con i problemi delle minoranze. Pensavo fosse più importante essere una specie di dannato tossico alienato piuttosto che una donna alienata che non si sente parte del mondo e vorrebbe esserlo.”


Shirley Clarke recupera la stessa atmosfera straniante, rompendo le stesse barriere, mettendosi in gioco dall’esterno quando uno degli attori le rivolge la sua angosciante riflessione: “Non aver paura, amica, questo è solo il tuo film, non è reale. Voglio dire, uh, davvero reale".


Jonas Mekas, anch’egli regista d’avanguardia e suo amico, collaboratore di Allen Ginsberg, Yoko Ono, Andy Warhol, coglie l’essenza della trasposizione cinematografica di The Connection e nel "Movie Journal", The Village Voice del 4 ottobre 1962 scrive: "Nulla accade in The Connection (al nuovo DW Griffith Theatre). Parlano, scherzano, suonano jazz. Non nascono idee, non si verificano climax drammatici - o, se si verificano, sono di poca importanza, non cambiare nulla. Ecco dove sta il significato (o uno dei significati, quello che mi interessa in questo momento) di The Connection : nel nulla, in quella poca importanza. Mostra qualcosa dell'essenza della nostra vita solo oggi perché non si tratta di niente. Non punta alla verità: mette in moto la verità, la suggerisce”.


L’opera teatrale del Living Theatre e quella cinematografica di Shirley Clarke aprono la strada per nuove sperimentazioni e influenzando la cinematografia di Andy Warhol. Non si trattava di rappresentare situazioni estreme, reali, crude, ma filmare la stessa realtà con gli attori che recitavano la propria stessa vita, mentre la vivevano.


La rappresentazione teatrale di The Connection del Living Theatre è stato il loro più grande successo. Il film di Shirley Clarke, Premio della Critica al Festival di Cannes, in America venne censurato perché considerato osceno nel linguaggio. Jonas Mekas ci ha lasciato sulla critica e la censura con cui si scontrò The Connection, un pensiero che sa di poesia: “Ora, ragionate solo un attimo: sapete veramente di cosa parlate, conoscete veramente il significato di parole come ‘squallido’, ‘offensivo’, ‘bislacco’, ‘grossolano’, ‘morboso’, ‘volgare’, ‘scadente’, ‘sordido’, ‘sgradevole’? Vi ho visti, seduti nelle salette in occasione delle anteprime, ho visto le vostre facce e spesso mi sono chiesto: sono queste le persone che dicono all’America cosa deve e cosa non deve vedere? Sono queste le persone che pronunciano la sentenza in materia di bellezza e di verità?”.

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