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GIORNO PER GIORNO 1 maggio - Jean Genet: creare disagio

1 maggio 1970

Jean Genet parla sul palco con le Pantere nere per la liberazione di Bobby Seale


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“Quello che è ancora chiamato dinamismo americano è un tremore senza fine.”


Il discorso che Jean Genet pronuncia davanti a 25.000 persone convenute sui prati del New Haven Green di fronte al vecchio campus di Yale, termina con un ultimo ammonimento: “la tua vita futura dipende dal Black Panther Party”


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Era la prima giornata della mobilitazione nazionale per la liberazione del leader delle Pantere Nere Bobby Seale, accusato di omicidio (accusa da cui sarà prosciolto)e il discorso dello scrittore francese risultò tutt’altro che prevedibile e scontato. Era salito sul palco e aveva parlato per alcuni minuti in francese, poi aveva lasciato al ministro dell'Informazione delle Pantere, Elbert “Big Man” Howard la lettura del suo discorso, tradotto in inglese da Angela Davis, la militante afroamericana che per i due mesi precedenti aveva fatto da interprete. Aveva iniziato a parlare spiegando il perché della sua presenza negli Stati Uniti. Era entrato clandestinamente, perché come due anni prima non gli era stato concesso il visto: omosessuale, ladro, per tanti anni in prigione e per di più critico contro il suo paese durante la guerra d’Algeria e più che critico nei confronti della politica Usa. Il giorno prima aveva ricevuto una convocazione dall’Ufficio Immigrazione, ma da quando era entrato clandestinamente dal Canada, non aveva ricevuto troppi fastidi dalla polizia, durante il tour di conferenze in appoggio alla lotta delle Pantere. “Io sono un vagabondo, non un rivoluzionario”, per questo che le limitazioni che subiva erano ben diverse da quelle che venivano inflitte ai militanti afroamericani.


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Lo scrittore francese appare ben piccolo rispetto alla mole del Big Man, indossa un abito che un sarto ha voluto regalargli per il suo impegno e parla rivolgendosi agli studenti e ai militanti bianchi presenti in maggioranza nel campus. “i bianchi hanno paura della libertà. È una bevanda troppo forte per loro. " e poi “Quella che la gente chiama civiltà americana [...] è già morta, perché si fonda sul disprezzo, sul disprezzo dei ricchi per i poveri, sul disprezzo dei bianchi per i neri ..."


Il fine settimana, gli ultimi giorni di aprile sono stati di grande tensione in tutto il Paese e il primo maggio del 1970 con le Pantere Nere a Yale apre il mese che verrà ricordato come quello della Grande Rivolta.


Solo pochi giorni prima il presidente Nixon aveva annunciato che dopo il Vietnam, l’esercito americano aveva invaso e bombardato anche la Cambogia, mentre all’interno aveva adottato su consiglio dell’eterno poliziotto d’America Edgar Hoover, pratiche di infiltrazione, provocazione e annientamento fisico delle organizzazioni degli afroamericani,dei latinos e degli oppositori in genere. Nel mirino del piano (chiamato CONTEILPRO, che decenni dopo verrà reso pubblico), le Pantere Nere, gli Young Lords portoricani, i Brown Berrets messicani, i nativi americani dell’American Indian Mouvement, gli studenti del SDS, ma anche giornalisti, intellettuali e oppositori politici.


Intorno a Yale c’è la polizia e la Guardia Nazionale schierata. Nei giorni precedenti all’annuncio dell’escalation della guerra c’erano stati scontri e la mattinata era iniziata con gli interventi di quelli che erano stati denominati capi-complotto, imputati l’anno precedente per l’assedio nel 1968 a Chicago alla convention del partito democratico che aveva avviato la guerra in Vietnam. Erano presenti tutti e sette, mancava l’ottavo,perché detenuto, l’unico afroamericano, proprio Bobby Seale, che al processo era stato legato e imbavagliato, e la cui posizione poi era stata stralciata per essere giudicato a parte.


Jean Genet mesi prima aveva ricevuto l’invito ad attivarsi in Francia a favore delle Pantere Nere da Connie Matthews, giamaicana e residente in Danimarca con un lavoro con l’International Folk Council. Con lei Genet aveva concordato un diverso progetto: un tour di conferenze con i leader neri per tutti gli States.


L’appello che gli era stato rivolto derivava dall’idea che i militanti afroamericani si erano fatti attraverso il successo della sua commedia The Blacks, un'opera teatrale con un cast tutto nero e un tema di vendetta contro gli oppressori, presentata a New York nel 1961 e in scena fino al 1963,

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per proseguire a Montreal. Una commedia fondamentale per lo sviluppo del teatro nero in America, interpretata dai migliori rappresentanti della recitazione americana nera, tra cui James Earl Jones e Maya Angelou.


Le opere di Genet, non circolavano, non venivano tradotte o erano state ritirate per il loro contenuto ritenuto esplicitamente omoerotico. Le Pantere di lui apprezzavano la sua politicità naturale e poco intellettuale, la sua vicinanza con la sofferenza coi popoli del Sud del mondo e gli emarginati, più volte presente nelle sue opere e più ancora contava la sua biografia personale.


Figlio di una prostituta, cresciuto in una famiglia affidataria, perennemente in fuga a 13 anni si era lasciato alle spalle tutto e aveva iniziato a vagabondare, vivendo di furti, prostituzione, sotterfugi con cui guadagnarsi la sopravvivenza tra una detenzione in riformatorio, una fuga, un soggiorno in manicomio, perennemente sottoposto a violenze e in punizione. Aveva conosciuto botte e privazione, odiava sé stesso e il mondo ed era entrato nell’esercito, credendolo un’ultima fuga. Otto anni in Nord Africa, Siria, paesi arabi, con mercenari,trafficanti, criminali per poi darsi alla fuga di nuovo. Disertore in fuga n tutta Europa, Francia, Spagna, Italia, Albania, Svizzera, Iugoslavia, Grecia, Polonia, Cecoslovacchia, Germania, Austria, Belgio poi un’altra volta a Parigi. Erra a piedi o con mezzi di fortuna, mangia dalla spazzatura, ruba, si prostituisce, dorme ovunque capiti, in strada o nelle peggiori bettole in cui l’orario di chiusura coincide con il primo albeggiare. In ogni Paese finisce dietro le sbarre, viene espulso e sta sempre in mezzo ai guai. E’ lì che ha iniziato a scrivere, anzi è in cella che dice di riuscire a scrivere meglio.


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La sua scrittura gli era valsa l’attenzione degli intellettuali più influenti,: Sartre e Cocteau si erano spesi davanti ai giudici e attraverso la stampa perché, imprigionato infine a Parigi, nel 1948 gli venisse concessa la liberazione, perché la Francia aveva bisogno di scrittori come lui.


Genet era un lumpen, un sottoproletario, un marginale esattamente come la maggior parte dei militanti e sostenitori delle Pantere Nere. Chi proveniva dalla sofferenza capiva e si immedesimava nella sofferenza altrui. Sembrava una versione poetica della lezione di Franz Fanon, il Sud del mondo che parte all’assedio del centro del potere; gli emarginati dei ghetti che conquistano il centro delle città. Il margine che annulla il centro.


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Arrivato negli Stati Uniti a marzo, passando il confine canadese esibendo per due volte il passaporto di un amico, aveva chiarito immediatamente il suo pensiero. Davanti a un pubblico bianco all’Università di Los Angeles o a Berkeley, accorso per vedere il famoso scrittore e commediografo francese, dichiaratamente omosessuale e dal tremendo passato, aveva detto “Non sono qui per parlare di me. Sono qui per le Pantere Nere” . Era intervenuto a un incontro per raccogliere fondi per le Pantere nere, organizzato dal famoso sceneggiatore cinematografico Dalton Trumbo, perseguitato dai processi del maccartismo negli anni Cinquanta per le sue idee politiche. Aveva incontrato Jane Fonda e suo marito, l’attivista Tom Hayden, e poi Donald Sutherland, Ken Kesey, il mondo della controcultura e del cinema e dell’impegno civile, ovunque per parlare, ascoltare e raccogliere fondi e sostenere le Pantere. Angela Davis, la militante nera più conosciuta al mondo, lesbica e sua assistente e interprete, condivide con lui parte del viaggio e ne racconta alcuni episodi.


Con il gruppo di Pantere con cui si muove si sente come in una famiglia, quella che non ha mai avuto. Cerca di capire di più e non si preoccupa per nulla di mettere in ridicolo la posizione machista dei militanti neri. Quando usano per Nixon o il capo della polizia epiteti come omofobici spiega bruscamente il loro sbaglio. Altre volte prima di intavolare un discorso sull’omosessualità usa una provocazione teatrale come presentarsi con una vestaglia rosa per metterli a disagio. Come si può altrimenti discutere insieme di lotta all’emarginazione?


Anche per quel primo maggio Jean Genet ha scritto un discorso per provocare disagio. Disagio tra i bianchi, tra gli studenti bianchi ribelli e gli intellettuali liberal.


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“È del tutto vero che neri e bianchi hanno un abisso di 400 anni di disprezzo da colmare. C'era una cosiddetta superiorità da parte dei bianchi, ma i bianchi non sospettavano di essere osservati, in silenzio è vero, ma osservati tanto più da vicino. Oggi, i neri hanno tratto da questa silenziosa osservazione una profonda conoscenza dell'uomo bianco” .


Ai bianchi ora sta la scelta. Capire gli altri. Jean Genet non è negli States per mostrare solidarietà, perché la solidarietà è roba vuota. I bianchi devono disertare da sé stessi, capire che va rovesciata la scala gerarchica ed essere seppellita, non ricostruita. Perché il tenore di vita di tutti bianchi è garantito dallo sfruttamento del resto del mondo,dal furto delle materie prime. Tra dominio brutale e solidarismo paternalistico i bianchi devono scegliere una nuova strada. Non occorre più il gesto simbolico ma una reale presa di posizione per cambiare l’ordine delle cose.


Le Pantere Nere avevano concepito la comunità afroamericana come dei colonizzati interni, colonizzati esattamente come i popoli dell’Africa e dell’Asia, da questo veniva il loro internazionalismo, per questo nell’anticapitalismo vedevano l’unica possibilità di liberazione per tutti. E Genet ora stava dicendo agli studenti che si opponevano alla guerra, che era troppo poco se non abbracciavano anche le motivazioni della resistenza dei popoli bombardati. L’ultimo avvertimento “la tua vita futura dipende dal Black Panther Party” , non è pensato per Bobby Seale, o per tutti i militanti neri imprigionati o minacciati di morte. E’ diretto a tutti i bianchi che lo ascoltano o che leggeranno Genet's May Day Speech, il libretto con il discorso che pubblicherà la City Lights di Ferlinghetti: i radicali bianchi dovevano capire il movimento rivoluzionario del Sud del mondo per reinventare il proprio sistema sociale di vita e smettere di pensare al proprio mondo come centro dell’universo. Una bella sfida, come aveva scritto nel suo Diario di un ladro: "distruggere tutte le ragioni abituali di vita per scoprirne altre".


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Il discorso di Jean Genet però è anche più sofisticato. Non fa moralismi, non da lezioni, ma punge anche i vertici delle Pantere Nere, il loro apparato scenografico, l’immaginario che creano e la spettacolarizzazione della lotta. Dal primo momento nel 1966, l’azione del Black Panther Party, aveva avuto due direzioni contemporanee. Da una parte l’autodifesa della comunità nera, sull’esempio delle organizzazioni che negli anni ’30 e ’40 si difendevano con le armi, in bande di autodifesa contro il Ku Klux Klan e le azioni di linciaggio. E, insieme, la creazione di forme di coesione di aggregazione della comunità attraverso le scuole autogestite, le mense e le cliniche gratuite. E tutto questo era avvolto nella spettacolarità delle azioni,le divise, giacche in pelle e basco, le armi esibite (secondo l’emendamento costituzionale che lo permetteva), le foto che li ritraggono, l’uso sapiente dell’iconografia, la figura della pantera: il nero non era più sottomesso ma faceva paura.


La critica che Genet porta all’uso dei simboli è anche contro le stesse Pantere. Perché anche su quel terreno il Potere è più forte. E la stessa esibizione di fierezza e sprezzo della paura costringe ad assumere sempre e comunque una posizione di scontro aperto, di risposta colpo su colpo,senza duttilità tattica accettando lo scontro dove il terreno è stato creato dal nemico, sin dove lo stesso terreno è nemico. Più volte lo stesso Huey Newton, fondatore e leader del BPP, aveva manifestato il suo fastidio per essere stato convinto a poggiare come una statua con la divisa, nelle mani pistola e lancia seduto su un trono di bambù.


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Anche in questo Jean Genet era stato profetico. Anni dopo scriverà: “ Il contraccolpo sui Bianchi causato dall’esibizione delle armi dei Panthers, le loro giacche di pelle, le loro rivoluzionarie acconciature, le loro parole e persino il loro tono gentile ma minaccioso, questo era proprio quello che volevano i Panthers. Hanno deliberatamente deciso di creare un'immagine drammatica. L'immagine era un teatro per mettere in scena una tragedia e per soffocarla: un'amara tragedia su se stessi, un'amara tragedia per i Bianchi. Miravano a proiettare la loro immagine sulla stampa e sullo schermo finché i Bianchi non ne furono perseguitati. E ci sono riusciti.”


Negli ultimi anni sono tornate di attualità le riflessioni di Jean Genet sull’esperienza con le Pantere Nere e nel 1982 con i fedayn dopo la strage attuata dai cristiani maroniti in Libano, con al complicità dell’esercito israeliano nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, con migliaia di morti inermi. Il discorso del 1° maggio 1970 con le sue note aggiuntive sono state di nuovo oggetto di studio, non tanto per il 50esimo anniversario ma alla luce delle rivolte dopo l’assassinio di George Floyd soffocato da un ginocchio di un poliziotto bianco sul suo collo.


Letto anche da una prospettiva queer anticapitalista alcune idee di Genet vedono la loro estensione oggi come una soluzione: l’antirazzismo militante come forma di amore che rivoluziona e sconvolge il presente. Che chiede rinuncia e provoca disagio, come suggerisce la scrittrice e attivista franco-algerina Houria Bouteldja che nel suo libro I bianchi,gli ebrei e noi scrive: “Perché sto scrivendo questo libro? Perché condivido l'ansia di Gramsci: “Il vecchio sta morendo e il nuovo non può ancora nascere; in questo interregno compaiono una grande varietà di sintomi morbosi ". Il mostro fascista, nato nelle viscere della modernità occidentale. Ovviamente l'Occidente non è più quello di una volta. Da qui la mia domanda: cosa possiamo offrire ai bianchi in cambio del loro declino e delle guerre che ne deriveranno? C'è solo una risposta: la pace. C'è solo un modo: l'amore rivoluzionario.”


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Come scrive la ricercatrice di studi postcoloniali, Jackqueline Frost: “Più pressante, tuttavia, è l'esperimento che Genet's May Day Speech genera sotto forma di domanda, una domanda che non possiamo non sentire come nostra oggi: come faranno i bianchi, attraverso l'elaborazione della solidarietà e la rinuncia al potere, a distruggere il razzismo? e salvare l'amore?”.


Nell’agosto del 1970, il giornale delle Pantere Nere pubblica un appello di Huey Newton, presidente dell’organizzazione, che invita tutti i militanti ad abbandonare ogni atteggiamento machista e omofobico, derivato esclusivamente dalla propria insicurezza e paura, e l’invito a costruire un fronte comune di liberazione tra afroamericani, nativi e latinos con il Gay Liberation Front e le militanti femministe.


“Non si è rivoluzionari solo perché si è omosessuali. Quello che voglio dire è che ci sono alcuni omosessuali che desiderano affermare la loro differenza e la loro speciale qualità, e questa necessità li porta a smascherare il carattere arbitrario del sistema in cui vivono. Ma ci sono altri che desiderano passare inosservati e mimetizzarsi nel sistema, rafforzando così il sistema. Diciamo che l'omosessualità dovrebbe indurre l'omosessuale a incriminare il sistema; ma, in realtà, il sistema è fonte di così tanta umiliazione, paura e panico, ed è spesso molto più forte, che costringe un omosessuale a dissimulare e ad inchinarsi.” (Jean Genet)

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